«Possiamo fare a meno della carne ma non del pane! Non ci si può dimenticare del pane. E’ essenziale e fa parte della nostra dieta da sempre».
A parlare è Saied Nabil, 50 anni, di Alessandria d’Egitto. In questi mesi il Paese è scosso da una nuova ondata di proteste: il governo ha di nuovo tagliato i sussidi alimentari, in particolare quelli sul pane.
Negli ultimi tempi è accaduto svariate volte e ogni volta questa politica ha penalizzato il popolo, la classe media e medio-bassa. Che ora non ne può più. La cronaca è riportata dal Middle East Eye in un pezzo dal titolo “Egypt’s food price crisis: ‘How are we supposed to eat?'”.
A Giza come ad Alessandria e al Cairo, ma anche nei piccoli villaggi, la gente è in strada e urla slogan come «toglieteci tutto ma non la pagnotta» e «vogliamo mangiare!».
Non dimentichiamo che le Primavere arabe del 2011 in Tunisia e poi in Egitto, ebbero inizio al grido di «Pane e libertà».
Stavolta gli egiziani non osano chiedere la libertà (che il regime violento del generale Al-Sisi ha represso del tutto) ma il pane sì. Quello lo vogliono. Le cronache del marzo scorso – dal Middle East Eye all’Egyptian Street, da Al Jazeera al The New Arab – raccontano scene da presa della Bastiglia, dove le proteste sono chiamate “nuova Intifada del pane”.
Nuovi razionamenti
Somaya, casalinga di Imbaba riferisce che alle dieci del mattino il pane è già finito: non ha fatto in tempo ad assicurarsi la sua quota di 20 pagnotte per la famiglia. «Il governo sta cercando di limitare la spesa, e mettono sotto pressione i poveri», dice. Un funzionario governativo tenta di spiegare che 1500 panini sussidiati nelle panetterie sono troppi, «che ne mangino di meno».
«La ragione – dice – è che il governo si è reso conto che la quantità di pane consumato tramite le tessere è eccessiva. Ha deciso di tagliarla». Un uomo si lamenta: «Stamattina ancora non ho fatto colazione».
Tutto ha inizio quando il governo svaluta la moneta, a novembre dello scorso anno, con l’intento di incoraggiare gli investimenti esteri ed ottenere un mega-prestito dal Fondo Monetario Internazionale, provocando così un prevedibile rialzo dei prezzi. Per tenere a bada l’inflazione decide di non applicare politiche deflattive, ma di proseguire con i sussidi di alcuni beni di prima necessità.
Il pane è oggetto di incentivi pubblici dai tempi di Sadat e la gente è abituata a ricevere la propria razione settimanale presentando una tessera.
Ben presto però il governo fa una parziale marcia indietro: passare dalle cinque alle tre pagnotte a testa. Apriti cielo: quando arriva la notizia del razionamento la rabbia popolare esplode.
Le strade si riempiono di gente (oltre il 25% dei 90 milioni di egiziani vive sotto la soglia di povertà) e la ribellione non si tiene più. Eppure stavolta, a differenza del 2011, le rivolte del pane, per quanto sentite rimangono isolate: sono petardi che scoppiano in aria e non danno fuoco alla miccia.
Generation jail
Il motivo è che l’Egitto del 2017 non è più quello di sei anni fa. Nel frattempo c’è stata l’esperienza fallita della Fratellanza Musulmana e poi il colpo di Stato militare. Da lì in poi, il terrore e la repressione hanno preso il sopravvento. In un bellissimo ed approfondito pezzo di Joshua Hammer per il New York Times (“Come gli attivisti egiziani sono diventati una generazione di carcerati”) si racconta la storia degli ex rivoluzionari di piazza Tahrir finiti dietro le sbarre. La morte di Giulio Regeni sta lì a ricordarci costantemente il sopravvento di un regime criminale. La giunta militare in questi anni ha lavorato a fondo per disgregare completamente l’opposizione e per impedire la riorganizzazione di uno strutturato movimento di protesta. Complici i tanti collaborazionisti tra i cittadini comuni.
«In seguito all’approvazione della legge anti-proteste, di quelle contro le Ong, delle leggi anti-terrorismo e il quasi totale controllo su sindacati indipendenti e sui gruppi di opposizione – ci spiega il giornalista Giuseppe Acconcia – le mobilitazioni di questi mesi non riescono a prendere la forma di un movimento sociale strutturato contro il regime militare di al-Sisi».
Ciò non significa che il malcontento non covi. Anzi. A metà ottobre un tassista si era dato fuoco ad Alessandria per protesta contro l’aumento dei prezzi; nello stesso mese era diventato virale sui social il video di un guidatore di tuk tuk che dice «vediamo un’immagine dell’Egitto che sembra Vienna, ma quando poi scendiamo in strada quello cui ci troviamo difronte è un Paese cugino della Somalia.
I cittadini poveri non trovano un chilo di riso. I politici raccontano in tv che l’Egitto si sta sviluppando, e prendono in prestito soldi per grandi progetti nazionali del tutto inutili, mentre noi abbiamo un livello di istruzione che è il più basso mai raggiunto».
Il trionfo del cemento
L’ultima novità osannata dalla stampa governativa è il mega-progetto già in fase avanzata per la costruzione di una nuova capitale egiziana, che sorgerà a metà tra l’area del Il Cairo e l’hub del canale di Suez, a nord-ovest del Golfo. Costerà 194 milioni di dollari e verrà costruita dall’Arab Contractors Company; già solo l’architettura è da capogiro: 1,1 milioni di unità residenziali per 5 milioni di abitanti e un distretto amministrativo di 2,3 milioni di metri quadri, con dentro persino un nuovo palazzo presidenziale, ambasciate, lussuosi palazzi governativi e un distretto finanziario.
Tutto ciò mentre il ministro delle Forniture (anche detto dei poveri) constatava, a marzo, che le casse statali erano in deficit e decideva quindi di tagliare le quote di pane sussidiato per ogni cittadino. Non era la prima volta, ma questa, come abbiamo visto, è stata la più dirompente.
Sul sito ufficiale dei Fratelli Musulmani in inglese (Ikhwan web) si legge: «le proteste confermano che la rivoluzione è ancora vibrante nelle vene degli egiziani, nonostante i tentativi di eliminarla dai loro cuori». Nonostante il tentativo della giunta militare di «screditare e demonizzare la rivoluzione e i rivoluzionari». Sarà vero? In effetti le scelte economiche del governo autoritario di Al Sisi stanno allontanando sempre più il popolo dall’autorità e dal potere, e la gente si disaffeziona alla politica. Soprattutto ora che c’è di mezzo anche il debito. Per far fronte alla crisi finanziaria e riconquistare la fiducia dei mercati, il governo si è avvitato in una spirale debitoria: a novembre scorso è entrato nel tunnel del Fmi, chiedendo un maxi-prestito (in tre tranche) da 12 miliardi di dollari. Il maggiore mai concesso dall’istituto finanziario di Washington.
La spirale del debito
C’è da chiedersi anzitutto perché il Fmi abbia accordato ad un Paese in bilico una somma così grossa. E c’è da sperare che l’Egitto riesca a pagare le quote, senza dover chiedere troppi sacrifici agli egiziani. Ma questo, in realtà già accade.
Nelle motivazioni di concessione del credito la Lagarde ha detto: «la liberalizzazione del tasso di cambio e l’entrata in vigore delle riforme sono misure importanti in agenda. Consentire al tasso di cambio di venire determinato dalle forze di mercato migliorerà notevolmente la competitività dell’Egitto».
Finora però l’unico effetto visibile è stato il rialzo dei prezzi. Lagarde chiede inoltre riforme strutturali e politiche di austerità. Di fatto l’avvitamento nella spirale inflazione-debito – pagamento degli interessi sul debito è già insostenibile. Il tasso d’inflazione continua a crescere senza tregua e il prezzo di frutta e verdura lievita. Insomma a rimetterci sono i più poveri.
Il succitato conducente di tuk tuk dice una grande verità: il governo egiziano sta usando i soldi pubblici per finanziare mega progetti infrastrutturali di cui nessuno sente la necessità. Come il secondo canale di Suez gemello del primo, o ancora, una grande agenzia spaziale, sul modello di quella americana.
«Nel 2014 il governo ha raddoppiato il canale di Suez costruendone uno identico vicino a quello originale – scrive il Newsweek – e assicurando che gli 8,4 miliardi di dollari di investimento avrebbero raddoppiato le entrate del canale, facendo affluire alle casse statali 13 miliardi di dollari l’anno a partire 2023, in tasse e balzelli. Ma la realtà è stata ben differente: le entrate mensili nel 2016 sono diminuite rispetto a quelle dell’anno precedente».
Anche l’avventura spaziale egiziana sembra già abortita: «i viaggi spaziali sono un modo ambizioso per spendere denaro ma l’Egitto non dimostra di saperlo fare – sempre il Newsweek – Nel 2010 ha perso il contatto col suo primo satellite non commerciale, l’EgyptSta 1, lanciato con l’Ucraina nel 2007, un fallimento raro». La grandeur egiziana si è ridimensionata molto.
(pubblicato su Popoli e Missione di maggio. foto da Ahram online)