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Il movimento brigade anti-negrophobie in Francia cresce e continua a farsi sentire in modo capillare.
Le periferie francesi non dimenticano il pugno di ferro usato dalla polizia; la repressione spesso brutale, la violenza fatta sistema che punisce i giovani marginalizzati.
Sono gli arrabbiati delle banlieue nelle sacche di povertà incancrenita, che galleggia a metà tra legalità e illegalità, cultura francese ed araba, rabbia e desiderio d’integrazione.
Theo, il 22enne di origini maghrebine picchiato e violentato dai poliziotti il 6 febbraio scorso, è nato e cresciuto a Aulnay-sous-Bois, a Nord di Parigi. Oggi è il simbolo di una repressione ingiusta e fuori controllo. Una terapia “muscolare” adottata da governo e forze dell’ordine nei contesti di disagio, in una Francia che fatica a riconoscere se stessa come patria della lumiére.
«Non fate la guerra, restate uniti, ho fiducia nella giustizia», ha detto il ragazzo dal suo letto d’ospedale, mentre i compagni scendevano in strada per protesta e il presidente Hollande era al suo capezzale.
Ma Theo non è il solo: il 19 luglio scorso moriva il 24enne Adama Traorè, ucciso in un commissariato di polizia a Beaumont-sur-Oise, nella Val d’Oise. E nasceva un Black lives matter alla francese, sulla falsariga del movimento antirazzista americano.
E’ come se una Francia seminascosta e dolente stesse uscendo allo scoperto pezzo dopo pezzo, denunciando un malessere che cova da decenni nelle banlieue.
E che forse solo il cinema e la letteratura ci avevano mostrato con lucidità impressionante, rappresentandoci tutto il dolore e la rabbia di un’integrazione fallita.
Il modello francese di “assimilazione” ad un certo punto si incrina, va in tilt. O forse semplicemente mostra tutti i limiti che ha sempre avuto.
Assimilazione fallita?
«E’ mancata una fase di messa in discussione del modello identitario: la Republique continua a rappresentarsi come fucina di integrazione che rende le persone uguali e le trasforma in cittadini francesi modello; questa almeno la narrazione pubblica – spiega il giornalista-saggista Guido Caldiron, autore tra gli altri di “Banlieue, vita e rivolta nelle periferie delle metropoli” – ma in realtà tutto ciò non accade oramai più da decenni».
Il meccanismo si è inceppato anni fa e la narrazione pubblica e quella privata divergono totalmente.
La verità, in fin dei conti, dice ancora il giornalista, è che «la Francia non riesce più a fare dell’immigrato un cittadino a parte intera» e non si interroga fino in fondo sulle ragioni del flop.
Forse perché questo metterebbe in discussione troppe cose: «Rimane il grande tabù francese».
«L’assimilazione – spiega anche il sociologo e giornalista Marco Omizzolo – altro non era che la trasformazione, non solo culturale, ma antropologica dell’immigrato in “francese”.
Il migrante inizialmente veniva accolto per irrobustire l’esercito, la manodopera, sostenere il calo demografico, a patto che si spogliasse però delle sue caratteristiche etnico-culturali per diventare un francese tout-court». Più riusciva a dimenticare se stesso, più aveva chance di successo sociale.
«Non c’erano discriminazioni a monte, a patto che quella persona si dimenticasse in un certo senso della propria storia», dice ancora Omizzolo.
Ma i fatti hanno dimostrato l’impossibilità di una fusione totale: persino nel caso delle seconde e terze generazioni, soprattutto negli anni della crisi economica e della disoccupazione, ancora di più quando il welfare ha iniziato a vacillare.
Chi proviene da contesti algerini, tunisini, maliani fatti di cultura africana, religione islamica, lingua araba, può accontentarsi dello spazio privato per esprimere se stesso? «Coloro che non ci sono riusciti o non hanno voluto farlo sono precipitati sempre più ai margini della società – risponde Omizzolo -. Le banlieue sono luoghi di lontananza rispetto alla centralità del potere e della vita economica».
Prime avvisaglie
«La crisi delle banlieue si manifesta in modo eclatante nel 2005, con i moti urbani durati settimane in seguito alla morte di due giovani in una centralina elettrica per sfuggire a un controllo di polizia – ci racconta Guido Caldiron – A partire da quel momento la Francia è scossa da centinaia di incidenti piccoli e grandi». Fino ad arrivare ad oggi.
«Ma – prosegue il saggista – quella vicenda era già un punto d’arrivo: la crisi delle periferie urbane data almeno dagli anni Ottanta». Quando forme disperate di protesta che non trovano un canale d’espressione politica, si manifestano attraverso rivolte urbane.
Negli anni Ottanta l’ultimo tentativo visibile di dare rappresentazione al cosiddetto popolo delle periferie è la “marcia per la legalità” contro il razzismo, passata alla storia come la Marche des Beurs dell’ottobre-dicembre 1983. «I giovani delle banlieue incontrano il presidente Mitterand per spiegargli che qualcosa sta andando storto». E’ una forma disperata di richiesta d’aiuto per ripensare un modello. «Esistere, significa esistere politicamente», scriveva Abdelmalek Sayad nel 1985 facendo un bilancio sociale della Marche des Beurs. Se la pratica politica non cambia, se i figli degli immigrati non hanno anche un ruolo politico, «la lotta contro il razzismo si limita ad essere una questione morale».
Nel periodo tra questa marcia e la più grande rivolta del 2005 intercorrono 20 anni in cui si assiste «ad una difficoltà crescente della sinistra politica di rappresentare quei territori», dice ancora Caldiron. Ci si era riusciti forse negli anni delle fabbriche e delle banlieue rouge, i quartieri operai rappresentati dal partito comunista in stretta relazione con i sindacati. Ma, con la crisi dell’industria, spiega il giornalista, inizia il declino di quella rappresentazione.
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