Mai conflitto fu più abusato e sottoposto al vaglio delle griglie ideologiche quanto quello siriano.
«Non c’è unanimità su nulla; neanche sul modo in cui definirlo. Alcuni lo chiamano rivoluzione, altri guerra, altri ancora si offendono se la si chiama guerra. Alcuni parlano di cospirazione internazionale, altri la chiamano solo ‘gli eventi’ o “la crisi”».
La Siria è così. Genera posizioni talmente divergenti da credere che non si tratti della stessa cosa. A spiegarlo è una reporter “storica” del fronte di guerra: Rania Abouzeid, libanese-australiana, messa al bando da Assad e confinata a seguire la guerra nelle zone sotto occupazione dei ribelli.
In una lunga intervista riportata da Open Democracy, Rania parla del suo libro “No turning back: life, loss and hope in wartime Syria, vita, perdita e speranza nella Siria in guerra.
La polarizzazione delle opinioni sulla Siria (basti pensare alle interpretazioni divergenti sugli Elmetti Bianchi nelle zone sotto assedio finanziati dagli Usa) suggerisce molte «diverse narrazioni».
Questa, anzi, è proprio la fiera delle narrazioni divergenti: tutte apparentemente valide.
«La polarizzazione sta anche nel modo in cui i siriani si chiamano l’un l’altro. Per alcuni dei rivoluzionari chi sta dalla parte del regime è uno shabia, un teppista. La popolazione schierata col regime chiama i ribelli tutti terroristi. Esiste questo linguaggio disumanizzante e uno sfruttamento delle differenze. I siriani sono diventati reciprocamente “l’altro”, l’un per l’altro».
Si fa fatica ogni giorno a discernere il vero dal falso in Siria. Il racconto mediatico non aiuta: persino la scelta narrativa dei giornali cambia da Paese a Paese in modo assoluto.
Alcuni media africani, ad esempio, come Il Guardian versione nigeriana sono pro-Assad perchè anti imperialisti e dunque schierati con la Russia che sostiene Assad. Il sentimento anti-trumpiano o anti-sionista basta a definire l’area di appartenenza sullo scacchiere siriano.
Sull’uso del gas sarin nella Ghouta orientale ognuno ha detto la sua: chi odia gli americani propende per il negazionsimo; chi sta con Israele condanna ferocemente gli attacchi chimici.
In un editoriale di Patrick Dele Cole sulla Vanguard nigeriana, si legge che «l’Occidente, patria delle fake news, sapeva esattamente dove colpire l’orso russo che si era arenato senza speranza». L’editorialista nigeriano sta con Assad perchè è contro la logica coloniale.
«Chi vive nel Terzo mondo – scrive Cole – e tutti gli ex colonizzati sanno troppo bene come l’Occidente può raccontare delle storie che non sono dei fatti, presentandole come “verità”».
In un altro editoriale della Vanguard si legge: “Può il grande fratello Russia salvare la Siria dall’Occidente?».
Ecco che per molti africani Putin è addirittura un eroe. La Siria non è più la Siria ma rappresenta la vecchia polarizzazione della Guerra Fredda: russi contro americani. Buoni contro cattivi.
La tentazione dei cronisti e degli editorialisti di replicare griglie di pensiero ben sedimentate negli anni, in Siria è fortissima. Più che per il conflitto israelo-palestinese, qui ognuno tira l’acqua al suo mulino mentale. Spesso senza guardare ai dati. Senza prendere in esame i report e le risoluzioni delle Nazioni Unite.
Anzi, screditandoli, come se fossero anch’essi sottoposti alla propaganda. Pochissimi, dopo aver per mesi scommesso sulla non esistenza delle armi chimiche (speculando su foto, video e social media) hanno riportato la notizia delle notizie: ossia che il cloro è stato “possibly”, molto probabilmente, usato per davvero.
Alcuni media lo dicono più chiaramente, come Al Jazeera del 16 maggio scorso, che riferisce dell’attacco chimico altamente probabile a Saraqeb. Ma le conferme ufficiali (o le mezze conferme) passano sotto gamba.
Le illazioni invece svettano in testa alle prime pagine.
Che armi al cloro siano state sganciate il 4 febbraio a Sarabeq non lo ipotizza un esperto, lo dichiara l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) in un comunicato stampa che Reuters, Huffington Post, Time e Al Jazeera divulgano il 16 e 17 maggio scorso.
La stampa mediorientale come il The National, è anche molto attenta ai risvolti relativi ai profughi che raggiungono i Paesi vicini: «Il flusso di rifugiati e sfollati interni in Medio Oriente e Nord Africa è quasi raddoppiato in un anno. E la causa è al guerra civile siriana ancora in corso».
Da 2,4 milioni i displaced (gli sfollati) sono arrivati a 4,5 milioni e a sopportarne il peso maggiore sono proprio i “vicini di casa” più poveri.
La terminologia usata è sempre più complicata e arzigogolata nel tentativo di spiegare l’inspiegabile.
Il Newsweek, ad esempio, sintetizza così l’aberrante lotta strategica tra “superpowers”: «La Cina sta cercando di allargare il proprio sostegno alla Russia nella prolungata guerra civile siriana, mentre le potenze regionali, Israele ed Iran, ampliano un loro feudo di vecchia data che minaccia di destabilizzare ulteriormente il Paese in guerra».
I linguaggi sono sibillini. Diventano un Risiko in carne ed ossa. Dove le ossa e la carne, però, sono quelle degli altri. Delle migliaia di siriani che nel gioco al massacro muoiono per davvero.