Un francobollo nuovo di zecca commemora la storica visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti. Ai lati di una scritta verticale in inglese e arabo, Human fraternity meeting, un papa sorridente e un imam dallo sguardo severo si fronteggiano. La dichiarazione di Abu Dhabi ha fatto Storia e non solo qui da noi.
Il quotidiano Arabian Business di Dubai ne parla con entusiasmo, osannando il viaggio apostolico. L’imam in questione, Ahmad el-Tayeb ha incontrato il pontefice durante la conferenza interreligiosa sulla “fratellanza universale” dal 3 al 5 febbraio scorsi, firmando poi una storica dichiarazione congiunta.
«La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani»: si legge in uno dei passaggi fondamentali del documento.
Francesco aveva accolto l’invito dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi, ma l’esito dell’incontro, al di là della parata mediatica, non era affatto scontato. Anche perché mai prima d’ora un papa aveva toccato il suolo di un Paese del Golfo e men che mai celebrato messa negli Emirati.
A leggere i giornali arabi si apprende che già da qualche anno gli Emirati hanno adottato una politica di tolleranza verso le altre fedi e culture, tanto da istituire i ministeri della Felicità, della Tolleranza, della Gioventù (il cui ministro ha 22 anni).
Il sito web ufficiale del governo, Uae Cabinet, lo spiega in breve: «Non ci può essere un futuro per il Medio Oriente senza una ricostruzione intellettuale che ristabilisca i valori dell’apertura ideologica, della diversità e dell’accettazione di differenti punti di vista, siano essi intellettuali, culturali o religiosi».
Insomma una bella propaganda per dire che gli Emirati hanno abbandonato un atteggiamento tradizionalmente intransigente nei confronti delle religioni che non siano l’islam. Se non fosse che con questo suo ennesimo viaggio apostolico, Bergoglio è andato molto oltre la religione.
E decisamente anche molto oltre la tolleranza. «Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza», dice il testo.
La fratellanza, ha fatto comprendere bene Francesco, non si limita al fratello nella fede o al vicino di casa di credo differente. Ma abbraccia tutti, pure i non credenti. Ossia, il papa negli Emirati ha compiuto un perfetto balzo in avanti, confermandosi non solo capo religioso ma garante dei diritti umani. Il pontefice ha affermato il diritto di tutti ad essere considerati cittadini.
Il che significa che tutti coloro che condividono uno spazio pubblico amministrato, godono dei medesimi privilegi, ben al sopra del diritto di venire tollerati come minoranze religiose, linguistiche o culturali. E’ il privilegio di esistere in uno dato Stato (qualsiasi esso sia) e in uno specifico periodo storico e perciò di condividere lo stesso territorio, le stesse leggi, gli stessi servizi e diritti di tutti gli altri.
Non è molto chiaro quanto gli emiri abbiano davvero còlto questo punto rivoluzionario: al di là della retorica dell’amicizia, delle foto opportunity e dei francobolli, gli imam dei Paesi del Golfo rimangono estremamente guardinghi verso il concetto di reale uguaglianza religiosa, di genere o culturale.
Ma intanto il messaggio è partito forte e chiaro: non si mendica tolleranza, ma si condividono diritti. Spiazzando un po’ la retorica dell’Anno della Tolleranza 2019 negli Emirati. Messaggio che peraltro dovrebbe essere giunto pure alle orecchie dell’Europa sovranista.
Questa dichiarazione congiunta non vale solo per i Paesi del Golfo ma getta le basi per una reale integrazione dei cristiani in tutto il Medio Oriente, dalla Siria all’Egitto all’Iraq. E’ l’antidoto ad ogni discriminazione.
Ma un dato interessante da notare è come la stampa araba locale abbia ribaltato completamente la prospettiva: mentre da noi è Bergoglio il promotore indiscusso di questo “nuovo umanesimo”, in Medio Oriente il documento congiunto di Abu Dhabi è stato letto come la conferma di una svolta che già esiste da tempo e che la visita del papa non ha fatto altro che mettere in luce.
L’Arabian Business, quotidiano on line degli Emirati, ad esempio, scrive: «La settimana scorsa la reputazione degli Emirati Arabi Uniti come paradiso tollerante e sicuro per le persone di tutte le fedi, le razze e le culture, è stata messa sotto i fari del mondo». Altro elemento di analisi: certa stampa estera vede questa apertura degli Emirati al papa come un’ottima mossa per arrivare al resto dell’Occidente e deporre le armi di una eventuale guerra culturale.
Il quotidiano The Atlantic segue questa pista e spiega che «l’incontro non è stato una concessione alla cristianità ma un calcolo strategico e astuto».
E argomenta: «La visita del Papa è stata pubblicizzata come il dono degli Emirati alle diverse migliaia di lavoratori cattolici presenti nel Paese, inclusi i quasi 700mila filippini.
Ma questa era solo una parte dell’obiettivo. Liberati da qualsiasi obbligo verso gli islamisti, gli Stati del Golfo hanno solo da guadagnare nell’abbracciare l’Occidente, aprendosi ulteriormente all’Europa per beneficiare della cooperazione in funzione anti-islamista».
Una sorta di patto tra le fedi, dunque, una collaborazione contro il rischio incombente di terrorismo di matrice islamica, che peraltro spaventa più gli emiri che i capi di Stato europei. La stampa saudita, come il quotidiano on line Okaz, parla di «guerra all’estremismo per prevenire il radicalismo islamico». Dunque la dichiarazione congiunta di Abu Dhabi, col papa da una parte e l’imam dall’altra, può ben essere intesa come un “patto tra le fedi” in funzione anti terrorismo.
Un ulteriore sforzo devono ora farlo i cristiani stessi, per sentirsi non più marginali nei Paesi arabi. Non è facile uscire dalla sindrome della minoranza trascurata, quando non perseguitata, ma questo documento aiuta a prendere coscienza dei propri diritti.
Nader Akkad, siriano, vice presidente dell’Unione delle Comunità islamiche d’Italia in una intervista per Formiche aveva detto: «Questo è un percorso che ha due vie: un’azione interna che deve nascere e crescere nel loro cuore per sentirsi davvero cittadini, ma anche un’azione da parte dei musulmani e dei governi che sappia far percepire questa condizione come accettata realmente, desiderata anche dai musulmani e dai governi. È un doppio percorso che non può scindersi».