La diplomazia sembra finora aver avuto la meglio rispetto alla crisi siriana. Barack Obama il 10 settembre scorso ha chiesto al Congresso americano di ritardare il voto sull’intervento militare Usa contro la Siria, per dare una chance alla soluzione politica. La stampa internazionale ha espresso giudizi ambivalenti sul presidente degli Stati Uniti, che comunque perde consensi.

 

Sembra che non ne faccia più una giusta ormai: qualcuno in Occidente lo giudica troppo bellicoso e prossimo alla politica interventista di Bush, qualcun altro in Medio Oriente lo accusa di codardia e falso pacifismo.

In generale Barack Obama è sempre meno popolare sia in Occidente che tra gli arabi e gli israeliani, i quali, per opposte ragioni hanno stigmatizzato la marcia indietro del Presidente rispetto alla “crociata” siriana.

«Se gli Stati Uniti sono così indecisi ed esitanti (sulla Siria, ndr) cosa succederà vis à vis con l’Iran?».

Se lo chiede con preoccupazione Amos Gilbo sul quotidiano israeliano Ma’ariv nell’editoriale titolato “I malvagi sorridono”. La stampa ebraica è evidentemente delusa e definisce i ripensamenti di Obama su un attacco armato contro Assad «una debolezza pericolosa» che non lascia presagire nulla di buono per quanto riguarda il nemico israeliano numero uno dopo la Palestina: l’Iran.

«Non credo serva molta immaginazione per figurarsi le facce soddisfatte dei malvagi di Teheran, Damasco o Beirut – scrive Gilbo -. Questi personaggi fiutano la debolezza a distanza come fossero cani da caccia e capiscono che anche se l’operazione americana fosse portata avanti, sarebbe simile ad un leggero schiaffetto, e che subito dopo Assad potrebbe tranquillamente riprendere le sue operazioni usando aerei, missili, tank o semplici coltelli da macellaio».

Il giornalista Hagay Segal su Yedi’ot Ahronot scrive qualcosa di analogo, azzardando un giudizio storico: «Barack Obama non riceverà medaglie al valore. Gli storici lo derideranno – dice –. Scriveranno che nel 2012 il presidente fissò una red line per i siriani e quando questi la oltrepassarono nel 2013 fece ogni sforzo per sottrarsi al proprio dovere (…). Il linguaggio corporeo del presidente suggerisce determinazione ma la sua azione comunica debolezza».

Per la stampa araba dei Paesi anti-Assad, Obama è ugualmente codardo, ma stavolta l’Iran non c’entra: la non-guerra alla Siria, secondo i media sauditi e per quelli degli Emirati Arabi Uniti, è il segno che gli Usa non hanno intenzione di schierarsi con la popolazione civile inerme. E che dunque non difenderanno gli arabi dal terrorismo di Stato.

In una lettera aperta al presidente, il noto opinionista di Al- Arabiya, tv di Dubai, scriveva settimane fa: «Mr Obama, ad esser franchi, noi non abbiamo altri che lei». Un attacco militare «è l’ultima chance».

Al- Arabiya è considerata l’emittente televisiva più allineata con i sauditi ma in generale un po’ per tutti i giornali arabi la discriminante non è tanto quella famosa “linea rossa” ormai varcata da Assad che avrebbe usato armi chimiche contri i civili (sebbene questa certezza sia oggi tramontata), quanto piuttosto la violenza dimostrata dal presidente nel reprimere la rivoluzione fin dall’inizio.

Come dire, la linea rossa è stata oltrepassata già da tempo, perché nessuno ha fatto niente? Gli Usa sono gli unici cui il mondo arabo si rivolge, non avendo un’Europa di riferimento.

«Che cosa ha fatto il presidente americano finora? – scrive il quotidiano panarabo Al-Hayat – Nulla!». Sotto scacco è la non-azione più che il non-intervento armato.

Non azione politica, diplomatica, fisica. L’altro motivo di critica nei confronti di Obama è la verosimile dipendenza da Israele: «Il governo israeliano che nelle sue fila annovera anche criminali di guerra, vuole che gli Usa distruggano ciò che rimane della Siria. Ancora più importante – scrive sempre Jihad el-Khazen di Al Hayat – Israele vuole che gli Stati Uniti attacchino l’Iran e distruggano il suo programma nucleare, cosicché Israele possa essere l’unica potenza nucleare della regione, minacciando Paesi vicini e lontani».

Di tutt’altro avviso sono naturalmente russi e cinesi. Fin dall’inizio pro-Assad. Per i primi, sia il famoso discorso di Obama che ha ritardato il voto del Congresso americano, sia il successivo parere negativo del Congresso, sono stati un successo diplomatico. «Non ricordo un altro simile successo della diplomazia russa. Dico: bravo!», twitta così RT, una delle tv di Stato russe.

L’Iran plaude alla marcia indietro: Jomhuri-Ye Eslami, quotidiano iraniano, scrive che Obama si è reso conto del fatto che sarebbe stato isolato se avesse attaccato. Non avrebbe avuto alleati.

Certamente anche dall’Europa il presidente avrebbe ricevuto poco sostegno e comunque le opinioni pubbliche europee ed americane sono sembrate fin dall’inizio per niente convinte della necessità di questo attacco militare.

Il francese Le Figaro scrive: «Ad esser sinceri, Obama ha cercato di replicare sistematicamente ai dubbi e alle domande degli americani circa la necessità di un’azione militare limitata in Siria…». C’è riuscito fino ad un certo punto, poi ha desistito.

In definitiva, che lui fosse convinto o meno di questa guerra, il suo popolo stavolta non sarebbe stato con lui. Bastava guardare la rete, leggere i tweet, farsi un’idea dell’aria che tirava tramite video e news on line. I social network hanno fin dall’inizio smontato le certezze sull’uso delle armi chimiche da parte del regime.

Poi, tra gli eventi più attesi e più efficaci, è giunta la parola del papa. E’ arrivata la veglia per la pace di Francesco. «Guerra e violenza hanno il linguaggio della morte», ha detto il 10 settembre scorso. E i quotidiani europei hanno così trovato i loro titoli di prima pagina.

«Quando l’uomo si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio – ha detto papa Francesco – rovina tutto: apre la porta alla violenza, all’indifferenza e al conflitto».

(Il pezzo è uscito a mia firma sul numero di novembre 2013 di Popoli e Missione)

Clicca qui per leggere il pezzo di Foreign Policy: Syria will stain Obama’s legacy forever. 2016