I prossimi decenni saranno caratterizzati da una nuova corsa all’oro: la produzione di batterie elettriche necessarie ad alimentare l’auto del futuro.
L’Europa è in gara e sfida la Cina. Ma da dove arriveranno tutto il litio e il cobalto necessari al nuovo mercato? E soprattutto: che ruolo giocherà l’Africa?
Il filo rosso (o grigio) che collega il cuore pulsante e cocente dell’Africa Subsahariana e del Sudamerica, al Nord Europa gelido, ai limiti del Circolo Polare Artico, è il litio.
Questa materia prima, più che mai indispensabile a produrre batterie elettriche, sarà al centro (e in parte già lo è, assieme al cobalto) della imminente corsa alla green economy.
Gara di riconversione all’elettrico che rivoluziona l’industria dell’automotive mondiale. Come avvenuto per centinaia di anni con l’estrazione e il saccheggio di oro africano (e poi con la predazione di petrolio e gas), sta ora accadendo con le “terre rare” e i minerali di nuova generazione: litio, coltan, cobalto e nichel in primis.
Cambia la produzione finale, si trasforma il mercato. Si innova la domanda dei consumatori e con essa l’offerta dell’industria, incalzata dalle urgenze legittime del cambiamento climatico.
Ma lo sfruttamento resta. In Europa si estrae una frazione minima dei minerali necessari: appena il 2% del fabbisogno del continente. Il litio è contenuto in grandi quantità tra Argentina, Cile Bolivia e poi tra Zimbabwe, Mali e Congo.
Pertanto la predazione del Nord del mondo nei confronti delle infinite ricchezze del Sud, ahimè, è destinata a restare.
Questa almeno è la certezza che hanno molti analisti ed attivisti del movimento Laudato Sì e Friday for Future (con sede anche nei Paesi africani, sempre più consapevoli del proprio ruolo).
È la spina nel fianco di tutti i nostri missionari nel Sud del mondo.
Ma è anche l’avvertimento che arriva da istituti di ricerca scientifici non certo “terzomondisti” e Think Tank come il Multidisciplinary Digital Publishing Institute (MDPI) o l’International Energy Agency-Iea. La Iea ne parla in 300 pagine di dossier interrogandosi sul ruolo dei minerali “cruciali” per la transizione energetica.
Il testo ha per titolo “The role of critical minerals in clean energy transition” e analizza tra l’altro la provenienza di copper (rame) da Cile e Perù, di litio da Australia e Cile, di cobalto dalla Repubblica Democratica del Congo.
Leggere la Iea che parla di “maledizione delle risorse” fa un certo effetto. «In molti Paesi i depositi minerari sono risorse pubbliche e i governi dovrebbero essere obbligati a gestirli in modo tale da portare benefici pubblici a tutti – scrive l’agenzia fondata dall’OCSE nel 1974 – Sfortunatamente però ci sono miriadi di esempi di sviluppo delle risorse che non hanno portato ad una crescita economica sostenibile. Ma che al contrario hanno causato un danno sociale».
Lo sfruttamento delle miniere di coltan e cobalto in Congo, sono un esempio su tutti. Quelle di litio in Cile anche. «Ci sono molti esempi della cosiddetta “maledizione delle risorse”», scrive la Iea. Soffermandosi sulla bad practice congolese e su quella cilena.
Qui e altrove l’estrazione dei minerali avviene in modo improprio, senza regole e senza tutele per i lavoratori, anche minorenni.
«Problemi particolarmente sentiti in Paesi nei quali l’estrazione di minerali contribuisce in larga scala alle entrate fiscali», scrive l’Agenzia.
Il punto è anche la mancata redistribuzione delle risorse e la scarsissima ricaduta positiva sullo sviluppo umano locale. Il tutto dentro contesti politici gestiti da regimi corrotti e antidemocratici.
Da notare che, come più volte scritto anche su questo giornale, il cobalto è stato escluso non a caso dal regolamento europeo, frutto del lavoro congiunto di Parlamento e Consiglio, sui conflict minerals entrato in vigore a gennaio 2021.
Il regolamento molto atteso consente di tracciare la provenienza di quattro minerali dalle zone di conflitto: stagno, tantalio, tungsteno e oro.
Il cobalto, inizialmente inserito nella lista, è stato abilmente “depennato”, grazie alle lobby industriali. Ma sebbene l’Africa non sia pronta per la svolta, l’Occidente va avanti come un treno sulla partita energetica.
Il Parlamento europeo ha approvato lo scorso 8 giugno, con 339 voti a favore, il bando alle endotermiche che decreta la fine dei motori diesel e benzina: dal 2035 saranno in vendita solo auto elettriche.
Da dove uscirà fuori tutto il litio necessario per produrre batterie? La gara della riconversione è già iniziata e l’Europa non vuole perderla, anzi. Stavolta vuole vincerla.
Assicurandosi un primato, nonostante il gigante cinese e quello americano abbiano già da tempo intrapreso la stessa strada.
La Nordic Battery Belt (“Cintura nordica delle batterie elettriche”) è il nuovo distretto industriale che si snoda da Mo i Rana, nella contea di Nordland in Norvegia, passando per Skelleftea nel Nord della Svezia, fino a Vaasa nella provincia del litio, in Finlandia.
A tener banco sulla stampa internazionale è certamente la oramai famosa Northvolt, fabbrica di batterie elettriche interamente europea, che sorge appunto appena fuori la cittadina di Skelleftea, in una pianura circondata da foreste e distese di ghiaccio, al Circolo polare artico. Tra renne e villaggi di case in legno.
Si tratta della prima gigafactory di batterie al litio dell’Europa occidentale. Qui sono impiegate oltre 1.000 persone da tutto il mondo, tra operai e ingegneri.
L’immensa fabbrica, che a dicembre scorso ha dato alla luce la prima batteria per auto prodotta nel Vecchio Continente, da un lato sviluppa energia per l’economia verde del pianeta, dall’atro altera equilibri geografici e sociali interni molto delicati.
Inoltre come è ovvio, userà litio e cobalto provenienti da America Latina ed Africa, e si doterà di materie prime la cui origine resta incerta poiché, come abbiamo visto, è quasi impossibile controllarne la filiera.
Come scrive anche l’ISPI, «l’aria pulita dell’Occidente ha un prezzo molto salato per l’Africa» e per la Repubblica Democratica del Congo in particolare.
La gigafactory svedese lascia inevasi diversi quesiti. Ce ne ha parlato Maria Soave Buscemi, missionaria laica e biblista che per alcuni mesi all’anno vive proprio a Skelleftea e che ha incontrato gli allevatori di renne ed altre comunità tradizionali, costrette a rinunciare ai propri allevamenti per via della incalzante industria Green.
«Nel Circolo Polare artico l’unico popolo indigeno, quello dei Sami, che i colonialisti chiamano lapponi, sta perdendo il suo territorio: è spezzettato per via della deforestazione.
I Sami, impoveriti non sanno più dove portare le loro renne», ci spiega Buscemi. Il problema sono le numerose miniere aperte e poi i parchi eolici: le mega-turbine disturbano e spaventano le renne che si allontanano dal loro habitat. Il giornalista britannico Richard Orange che vive in Svezia, paragona l’attuale corsa “ai minerali critici”, alla corsa all’oro di Dubai. E scrive di deforestazione danni ambientali.
La mega- industria di batterie elettriche per auto, nel bel mezzo del nulla, è di certo un grande catalizzatore ed anche un’occasione di impiego per moltissime persone.
Ma stravolge il precedente equilibrio, come ci spiega la missionaria Buscemi. Il futuro di Northvolt si preannuncia radioso: ha già ricevuto ordini per più di 50 miliardi di dollari; quello degli allevatori di renne (per tutte le ragioni legate alla “svolta verde” del Paese), lo è molto meno.
L’intero distretto nord europeo della green economy cerca di contrastare quelli ad oriente, soprattutto cinesi, estraendo il più possibile in casa i minerali necessari, ma soprattutto importandoli da Africa e Asia. Intravedere un giacimento di litio in Europa (ce ne sono diversi in Portogallo e Spagna) è un miraggio ma per quanto si scavi, il risultato resta ancora scarso.
«Siamo convinti di poter creare le basi necessarie affinché l’Europa emerga come la regione leader per una tecnologia al centro della corsa alla decarbonizzazione», ha dichiarato poco tempo fa Peter Carlsson, co-fondatore e Ceo di Northvolt.
Ma è chiaro che al centro della sfida c’è anche la corsa ad una conversione industriale che procede a ritmi serrati per via di una lotta contro il tempo a chi arriverà prima e meglio, dal punto di vista della produzione. Di queste nuove “guerre del litio” (così vengono definite fin dal titolo) parla Philip Cooke in un articolo scientifico pubblicato dal Multidisciplinary Digital Publishing Institute.
«Conflict minerals: da Kokkola al Congo, per la batteria delle 500 miglia» si legge nel testo di MDPI. La raffineria di Kokkola si trova in Finlandia, nella regione dell’Ostrobotnia centrale.
Le miniere di coltan e cobalto dell’Est del Congo (a Manono sorgono le più promettenti) e quelle di litio del Sud est dello Zimbabwe (quinto produttore di litio al mondo), sono la preda al centro del business.
La Cina come è ovvio, vuole esser regina indiscussa del nuovo corso e cerca di inglobare al suo interno fette sempre più consistenti di mercato. Riuscendo spesso nell’impresa.
L’australiana Prospect Resources ad esempio, ha raggiunto un accordo vincolante con la cinese Zhejiang Huayou Cobalt per la cessione dell’87% della sua partecipazione nella miniera africana di litio nello Zimbabwe, in cambio di 377,8 milioni di dollari.
L’azienda cinese ha anche raggiunto un accordo per l’acquisto del restante 13% detenuto da altri due azionisti, per ulteriori 44,2 milioni di dollari.
«L’inizio del prossimo decennio sarà ormai uno spartiacque – scrive Riccardo Ciriaco su InsideEVs, sito web dedicato interamente alla mobilità elettrica – Lo Stato di Washington ha vietato la vendita di veicoli a benzina e diesel dopo il 2030, e contemporaneamente alcune case automobilistiche hanno già fissato le loro date di scadenza.
Ma la sfida riguarda anche l’Europa che si è già lanciata all’inseguimento di Pechino sull’elettrico, iniziando a registrare peraltro primi risultati incoraggianti.
E l’Italia? Anche da noi la competizione cinese comincia ad essere motivo di gran preoccupazione». Come finirà?
E che accadrà nel frattempo alle popolazioni del Sud del mondo, ignare dei grandi movimenti e delle strategie di mercato messe in atto dall’altra parte del globo?
Un sistema di regole più vincolanti, e un mercato consapevole e meno “selvaggio”, possono fare la differenza.
(Foto di Kindel Media: https://www.pexels.com/it-it/foto/auto-veicoli-tecnologia-moderno-9800031/)