Abbiamo incontrato Pascal Affi a Roma, poco prima della sua visita ufficiale in Francia. Il principale oppositore politico dell’attuale presidente ivoriano Alassane Ouattara, ci spiega perché la Costa D’Avorio non è ancora pacificata. E che ruolo può avere una commissione d’inchiesta che ricostruisca i fatti del 2010.
«Penso che la situazione sia tragica in Costa D’Avorio: oggi la questione impellente è quella della riconciliazione nazionale».
Pascal Affi ne parla con toni pacati ma inequivocabili. Lui è candidato alle prossime elezioni presidenziali della Costa D’Avorio.
Lo incontriamo a Roma, prima tappa del suo tour elettorale. E alla vigilia di una visita ufficiale all’Eliseo, con Francoise Hollande. La Francia di Nicolas Sarkozy ha sempre sostenuto Alassane Ouattara, Ado, l’attuale presidente.
Ma Hollande ufficialmente pare più disposto al dialogo con l’entourage dell’ex presidente Laurent Gbagbo. Che oggi è nelle mani del Tribunale Penale Internazionale.
Ho davanti a me un uomo di 62 anni: gran carriera politica e gran fegato.
E’ stato al governo con la presidenza di Gbagbo (ministro dell’industria e del turismo nel 2000) e ha poi seguito la sorte del suo presidente, deposto nel 2010 dopo le elezioni vinte al secondo turno da Ouattara, col sostegno dalla Francia.
Elezioni però molto controverse. Tanto che Gbagbo si rifiutò in quel momento di abdicare, e il resto del mondo gli si schierò contro. Fu guerra civile.
L’intero gruppo dirigente finì in carcere. E Pascal Affi c’è rimasto praticamente fino ad oggi. Rimane però ancora qualcosa di molto oscuro in quelle pagine di cronaca così recenti.
«Qui non si tratta di punire, si tratta di riconciliare», mi spiega.
Affi batte molto sul tasto della pacificazione e della violazione dei diritti umani durante quei terribili mesi di guerra civile tra il 2010 e il 2011.
«E’ stato un dramma: molte ingiustizie sono state compiute e molta umiliazione subita», ricorda Pascal Affi. Il suo tono è monocorde, nessuna partecipazione emotiva.
Come se quella storia non riguardasse anche lui.
Lo attendiamo all’ingresso dell’hotel Hilton. Arriva in perfetto orario, sobrio completo blu, serio, quasi stanco.
Accompagnato da sua moglie e dall’ex ministro della cultura, Augustine Komoe.
In un rapporto diffuso a febbraio del 2013 Amnesty International aveva denunciato l’ingiustizia delle forze armate contro i sostenitori dell’ex presidente Gbagbo, tra cui anche Affi e Komoe.
«La Costa d’Avorio ha bisogno di spezzare il ciclo di violazioni e impunità – aveva dichiarato Gaetan Mootoo, ricercatore di Amnesty – Non un solo soldato dell’esercito nazionale o un qualsiasi altro sostenitore del presidente Ouattara è stato chiamato a rispondere delle sue azioni: questo è il fallimento completo dello stato di diritto».
E’ la stessa cosa che mi ripete Affi: «Dopo la crisi politica del 2010 c’è stata una ribellione armata (quella dell’allora presidente Gbagbo che non volle lasciare il potere ndr.)».
Ma oggi gli imputati della giustizia ordinaria sono nella stragrande maggioranza i sostenitori di Gbagbo.
Nel campo opposto, solo l’ex capo delle milizie Amadé Ouérémi e Ahmed Sanogo, ex membro presunto del “commando invisibile”, sono stati messi sotto accusa.
Quei mesi di guerra sembrano essere stati combattuti da una parte soltanto. Come se i cattivi fossero tutti lì.
Leggiamo i quotidiani di allora, era il marzo 2011: «circolano i carri armati nella capitale della Costa d’Avorio, tra incendi, macerie e cadaveri abbandonati.
Alcuni mezzi blindati, agli ordini del presidente uscente, Laurent Gbabgo, che si rifiuta di lasciare il potere, sono entrati nel quartiere Abobo, poco dopo che colpi di mortaio avevano ammazzato una trentina di civili.
Sono stati visti soldati dar fuoco a negozi e automobili lungo le strade di Abobo, che è sotto il controllo dei fedelissimi dell’uomo che le Nazioni Unite hanno riconosciuto come vincitore delle elezioni presidenziali di quattro mesi fa, cioè Alassane Ouattara».
La pace non sarà possibile, dice oggi Affi, «se non si ritroverà la capacità di riflettere e di capire cos’è successo davvero in passato.
Quando i Paesi sono sottoposti a questo tipo di violazioni è difficile trovare la verità tramite i canali della giustizia classica, tradizionale».
Quando gli chiedo quale sarà la sua prima azione da presidente, nel caso in cui fosse eletto, Affi risponde senza esitare: <<ricercare la verità da una prospettiva di riconciliazione non di repressione, per ricominciare a vivere insieme>>.
Internamente il primo passo è quello di «istituire l’organizzazione degli Stati generali della Repubblica».
Ossia una sorta di commissione d’inchiesta. All’esterno: «aprire il commercio e il business all’Europa e a chiunque voglia avvicinarsi alla Costa D’Avorio- dice – Noi non abbiamo alcun tabù su alcun Paese e non abbiamo preferenze».
Il Paese ha bisogno di rinascere anche economicamente: «siamo il più grande produttore al mondo di cacao», spiega Affi, «ma produciamo anche anacardi, cocco, mango e caffè in grandi quantità».
Si tratta ora di sviluppare l’industria di trasformazione di questi prodotti. E di allacciare rapporti commerciali con chi vuole fare seriamente un business “pulito”.
Prima però è necessario avere una classe politica rinnovata.
Sia Pascal Affi che la sua ex ministra, un tempo erano sulla cresta dell’onda. Ma pare che abbiano accettato la loro cattiva sorte, perché, come mi confida l’ex ministro della Sanità, poi «la ruota gira».
«Lei è cristiana? – mi chiede a bruciapelo Komoe- Io sì. E come tale seguo le orme di Gesù: cioè il perdono. Conoscete la pratica di Cristo!».
Poi, alla domanda se non le pesi adesso, andare in visita a Parigi, come se la Francia non avesse avuto un ruolo in quel ribaltamento di governi e di presidenti, Augustin risponde con diplomazia: «è la storia: siamo stati colonizzati dalla Francia. Ma Hollande forse, non è Sarkozy».
L’Africa sembra avvezza a questi cambi repentini e dolorosi di fortuna. A queste impennate della storia.
Dalla prigionia in patria, all’Eliseo, con tutti gli onori.
In un appello diffuso di recente in Italia, dopo il viaggio di Pascal Affi a Roma, si legge: «l’intero processo elettorale, compresa la campagna che precede l’elezione vera e propria, deve svolgersi garantendo libertà e sicurezza a tutti i partiti in lizza. A tutti i cittadini deve essere garantito, liberi da pressioni, l’accesso ai seggi e l’espressione del voto».
Ci auguriamo che questo avvenga davvero. Almeno stavolta.