Nel dramma dell’attuale carneficina di Gaza ed Israele, la comunità internazionale teme soprattutto l’allargamento regionale del conflitto, con un eventuale coinvolgimento militare (in realtà remoto) di Libano ed Iran.
«Eppure vi dico che fin dai primi giorni di questa guerra è risultato evidente che l’escalation è già in corso e che non si tratta solo di una escalation militare».
La tragedia di Gaza, con i suoi 10mila morti, i 200 ostaggi ancora nelle mani di Hamas (al momento in cui scriviamo sono state liberate 20 persone) e le 1500 vittime israeliane, porterà con sé, oltre al fallimento dell’umano, «una instabilità progressiva molto rapida all’interno dei Paesi arabi e dell’intera regione mediorientale». Siamo di fronte ad un nuovo capitolo (forse finale) dell’irrisolta questione palestinese.
La mancata giustizia internazionale «pesa come una macchia sul nostro sistema di valori e sulla nostra anima».
A parlare in questi termini è Paola Caridi, giornalista e storica, autrice di molti saggi sul mondo arabo, che per anni ha vissuto a Gerusalemme e a Il Cairo.
Mentre è in uscita il suo nuovo libro su Hamas, ricordiamo “Arabi Invisibili” del 2007 (che è anche il nome del suo blog, Invisible arabs) e il saggio del 2009: “Hamas, che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese”.
Nello strazio di questa guerra i civili palestinesi non sono solo le vittime casuali e collaterali, precisa Caridi, «ma sono ahimè il preciso oggetto, il prezzo e l’obiettivo di una strategia che prevede una nuova Nakba».
Con il termine Nakba – letteralmente “catastrofe” – si intende l’esodo forzato della popolazione arabo-palestinese durante la guerra civile del 1947-48, al termine del mandato britannico.
Oggi un ulteriore esodo è alle porte e i progetti di “deportazione” dei palestinesi di Gaza lo dimostrano.
«In Cisgiordania da anni è in corso una Nakba a gocce – precisa Caridi – Sia nella zona di Hebron che di Nablus i coloni israeliani sono sostenuti dall’esercito israeliano».
Ma qualcosa di molto più potente e definitivo è avvenuto dopo la data spartiacque, quella del 7 ottobre 2023, quando «l’ala militare di Hamas – le brigate Izz al-Din al-Qassam – hanno compiuto un massacro dentro Israele».
Questa tragedia ha scatenato un processo a catena (forse) irreversibile. È l’epilogo della “catastrofe” palestinese. A preoccupare la studiosa è il fatto che a livello di Unione Europea e Usa «non si capisca quanto i civili palestinesi siano l’obiettivo e il prezzo – ripete – di ciò che scatenerà o ha già scatenato l’escalation».
Ci sono gli eserciti, ci sono le armi, ci sono i politici e poi ci sono i civili, come una pedina del nuovo Risiko. Ma come si è arrivati a tutto questo?
È necessario sfatare alcuni falsi miti, spiega la studiosa: «Hamas non è né un prodotto di vertice come l’Isis, né tanto meno una organizzazione nata e sostenuta da Israele contro Fatah», contrariamente a certa vulgata.
In origine Hamas «si è irraggiata in tutti i frammenti della società palestinese: a Gaza come in Cisgiordania, nei campi profughi del Libano e nei vari Paesi in cui esiste il rifugio nato dopo il 1948».
Raccontare Hamas significa anche parlare della sua diretta emanazione dai Fratelli Musulmani palestinesi, una declinazione di quelli egiziani.
Si forma 40 anni fa, prima ancora del suo battesimo pubblico nel dicembre del 1987.
La giornalista fa notare che «uno degli slogan degli analisti è oggi quello di appaiare Hamas all’Isis, non comprendendo che l’Isis è un’operazione di vertice».
Hamas nasce invece come prodotto della società palestinese ed ha sempre trovato ragione e forza nel suo legame con il popolo. Dunque annientare i terroristi non significherà risolvere il conflitto. Tutt’altro.
Ma è altrettanto errato sovrapporre l’ala militare di Hamas al popolo palestinese tout-court, perché dopo 16 anni di “prigione di Gaza”, sono due entità nettamente separate.
Il popolo palestinese peraltro si è opposto ripetutamente ad Hamas in questi ultimi anni, ma senza successo.
«Gli attentati suicidi di Hamas cominciano nel 1994 e proseguono per dieci anni, segnando la seconda Intifada – ricorda la studiosa -.
Hamas detiene il record delle azioni più sanguinose, con il più alto numero di vittime israeliane colpite di fronte ai caffè, sugli autobus, in strada, che segnano un pezzo di storia israeliana da non dimenticare».
Il contesto, per inciso, è quello dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, dei check point e dell’apartheid
Nel 2005-2006 c’è la svolta partecipazionista e Hamas decide «una sospensione degli attentati suicidi e di entrare nella transizione politica palestinese, partecipando alle elezioni municipali.
Le vince, e partecipa alle politiche nel gennaio 2006: a sorpresa vince anche queste». Il 2006 è infatti un altro breaking point.
Quelle elezioni «adesso dobbiamo ricordarlo, sono state benedette dalla comunità internazionale e benedetta fu la partecipazione di Hamas».
Un errore di valutazione, spiega la storica, dato dal fatto che si riteneva di poter “istituzionalizzare Hamas”.
«L’ala militare invece va avanti e agisce segnando la vita del movimento politico: uno degli atti unilaterali delle Brigate al Qassam, è quello di rapire il soldato israeliano Shalit nel 2006 e l’anno successivo di fare il colpo di Stato a Gaza».
È in quell’esatto momento che Gaza precipita nel buco nero: «sono 16 anni che è sigillata su tre lati da Israele, e ad alterne vicende dall’Egitto, e sono 16 anni che non Hamas, bensì Gaza, con tutto il suo popolo, viene espunta da una soluzione della questione israelo-palestinese».
Questa totale emarginazione, secondo Caridi è all’origine dell’attuale tragedia. In questi anni «l’ala militare di Hamas è cresciuta, si è ‘militarizzata’ come un esercito, diventando più importante di prima ed incidendo sulla linea politica.
Non solo: si è trasformata in un altro pezzo della struttura decisionale e politica di Hamas.
E il movimento ha governato Gaza, sigillata all’esterno, sempre di più come un regime».
Mentre il popolo palestinese veniva completamente calpestato dal resto del mondo ed appaiato ai terroristi. «Dentro questo buco nero che è Gaza, vivevano e vivono due milioni di persone innocenti sulle quali Hamas esercita un potere, una burocrazia, una forza militare e amministrativa totale», dice Caridi.
Abbiamo lasciato che Hamas da sola amministrasse «il carcere di Gaza, mentre Israele ha scatenato sulla Striscia quattro campagne militari, più l’ultima ancora in corso».
Adesso si parla di un “trasferimento in massa” dei civili da Gaza, ma i Paesi che dovrebbero accoglierli, Egitto e Giordania, mettono paletti.
«I profughi palestinesi sono una linea rossa per loro: non perché non se ne vogliano prendere l’onere – precisa Caridi –, ma perché Giordania ed Egitto non vogliono la questione palestinese buttata sulle loro spalle.
Non vogliono vivere una riedizione della “catastrofe”, una Nakba che sarebbe tale per l’intera regione mediorientale». Come dar loro torto? E come uscire da questo buco nero senza provocare ulteriore morte, lacrime, terrore e dispersione?