Mweso è una cittadina che conta 25mila abitanti nel territorio di Masisi, nel Nord del Kivu.
Il 25 gennaio scorso 19 persone sono state ammazzate in strada; tra loro c’erano anche dei bambini.
Il terrore torna a farsi sentire nella provincia più ad Est della Repubblica Democratica del Congo; una paura del “carnage” che in realtà non se ne è mai andato.
L’allarme nell’Ituri e nel Kivu è sempre molto elevato, come raccontano le mappe del Kivu Security Tracker che segnalano l’orrore delle mattanze, dei rapimenti e delle violenze ripetute.
«La sicurezza è oramai diventata una priorità e il Presidente Tshisekedi in campagna elettorale ha fatto delle promesse in questo senso: vigileremo affinchè le mantenga», ci spiega al telefono da Goma Ghislain Muhiwa, attivista di Lucha, Lotta per il Cambiamento, finito in carcere per tre mesi nel 2021, reo di aver manifestato dissenso verso la presidenza congolese.
Ghislain avverte che il gruppo a cui appartiene è ancora vivo e attivo e «organizzerà manifestazioni di strada, ci mobiliteremo per far sentire la nostra voce».
Dopo mesi di apparente tregua, dovuta alla concitazione e concentrazione sulla campagna elettorale, il movimento terrorista M23, “affiliato” al Ruanda, è tornato a farsi sentire del Kivu e questo «non è più tollerabile».
L’attentato del 25 gennaio porta la firma dell’M23 e segna la ripresa dei combattimenti tra milizie ed esercito regolare.
Gli abitanti dell’Est sanno, e quelli di Mewso lo hanno sperimentato sulla loro pelle pochi giorni fa, che l’M23 «è un pericolo sempre in agguato», ci ripete Ghislain.
Tanto che, sostiene l’attivista, non è possibile mettere mano a niente altro, «senza aver prima risolto la grande falla della sicurezza».
Un Paese smisurato quanto la RDC, che ha perso il totale controllo su un terzo del suo territorio, in mano a 114 gruppi armati senza regole, «non può pensare alla sanità, alla libertà, alle infrastrutture, a nulla se prima non smette di fare la guerra interna», afferma Ghislain Muhiwa.
L’attuale gruppo M23 è ciò che resta del Movimento formatosi nell’aprile del 2012, come ramificazione del National Congress for Defence of the People.
Che tra il 2006 e il 2009 protesse i Tutsi che parlavano ruandese e si rifugiarono poi nella regione dei Grandi Laghi.
«La parola giusta, quella che dovremmo usare se volessimo davvero parlare di quanto accade nel Kivu è genocidio», esattamente «come di genocidio tra Hutu e Tutsi» si parlò, portando all’attenzione del mondo un crimine contro l’umanità commesso in Ruanda nel 1994.
Sono le parole che monsignor Melchisedec Sikuli Paluku, pronunciò ad ottobre del 2022 in concomitanza con uno dei molti carnage del Kivu e a pochi giorni dal viaggio del papa in Congo.
Sono passati quasi due anni e non molto è cambiato.
Oggi, la contestatissima rielezione (e la credibilità) di Felix Tshisekedi del dicembre scorso, al suo secondo mandato, si gioca tutta sulla capacità o meno di riportare ordine e pace nel Paese.
«La sua campagna elettorale si è basata in gran parte sul tema della pacificazione – ricorda ancora l’attivista di Lucha – e non dovrebbe fallire su questo», pena la sua testa.
Si parla di una strategia “diplomatica” da parte di Tshisekedi, che vorrebbe stipulare accordi con le milizie meno “resistenti”, affinchè possa disarmarle ed inglobare i combattenti nell’esercito regolare.
Un lavoro di accorpamento lento e difficile Nel frattempo la gente nei villaggi però continua a morire e subisce attacchi armati senza protezione, soprattutto ora che la Monusco (la missione Onu in Congo) si ritira, lasciando il campo vacante.
Tanto che le Nazioni Unite stesse hanno divulgato una nota il 29 gennaio, allarmate per la ripresa dei disordini.
«La comunità umanitaria è profondamente preoccupata per le serie violazioni del diritto internazionale umanitario verificatesi di recente, con scontri che hanno portato alla morte di civili, incluse donne e bambini, in particolare a Mweso.
Un bombardamento in una zona residenziale ha ucciso 19 persone e ne ha ferite 20», ha scritto Bruno Lemarquis, coordinatore umanitario dell’Onu in Congo.
Per Lucha e per molti altri attivisti dei diritti umani queste elezioni, che hanno visto riconquistare la poltrona della Presidenza ad un uomo che ha «compiuto numerose irregolarità», afferma Ghislain Muhiwa, non sono valide. Ma sono state convalidate.
«Abbiamo avuto elezioni caotiche e piene di irregolarità – ripete con noi l’attivista – le abbiamo segnalate ma non è servito a nulla. Adesso però devono ascoltarci, e se non lo fanno ci faremo sentire mobilitandoci».
E’ necessario, «per costruire un avvenire migliore per il nostro Paese, non dover rischiare di morire uccisi dalle bande armate».