(foto di Alex Zappalà)
«La vera emergenza turca non è islamica è nazionalista. E l’Europa è all’origine di questa deriva turca fin da quando rifiutò di prendere sul serio le proposte per l’ingresso nell’Ue».
A dirlo è Claudio Monge, monaco domenicano che vive ad Istanbul da più di dieci anni. Andiamo a trovarlo nel suo convento: una piacevole oasi cristiana seminascosta sotto Galata Tower. Quartiere giovanile e trendy, turistico il giusto nel cuore di Istanbul.
Pensare che tre monaci vivano lì dentro e che lì dentro ci siano una chiesetta e una casa con orto e giardino per fare meditazioni e preghiere, fa un certo effetto. Non perchè fuori sia tutto visibilmente islamico. Anzi.
E’ perchè fuori è così rumoroso, arabeggiante, colorato. Claudio Monge in realtà nel convento ci sta poco. Le sue giornate sono movimentate. Conosce ogni palmo di Istanbul – asiatica ed europea – e ogni angolo di moschea. Una sera al tramonto ci porta ad Eyup. Uno dei santuari islamici più grandi e più frequentati. Prendiamo il battello come se andassimo in gita. C’è una luce arancione e un caldo piacevole.
E’ una sera di luglio del 2015 e in Turchia non c’è stato ancora nessun attentato contro i civili. Di lì a poco un gruppo di ragazzi in festa, dentro un centro culturale socialista, verranno ammazzati con dell’esplosivo. Al momento hanno ancora il coraggio di manifestare in piazza con qualche bandiera rossa e un altoparlante, per ricordare che in Siria è in corso una carneficina. Li incontriamo a Taksim. Ma la piazza politicamente tace.
Eyup Sultan, la moschea che visitiamo una sera, è un’esperienza immancabile. Ci mettiamo in fila io, Alex e Claudio. Per assaporare un pezzo di Turchia tradizionalissima. Io prendo in prestito un foulard fiorato che profuma di capelli di donne e di borotalco.
Ci separiamo: io con le signore velate, loro con gli uomini in maglietta e calzini.
Abbiamo fame: quel dattero che ci danno alla fine della preghiera, poco prima che si interrompa il digiuno, è una goduria. Dolce e buono. Poi compriamo anche il pane dell’iftar. E infine cerchiamo una taverna dove mangiare gli spiedini di fegatelli.
Centinaia di famiglie si accampano nei prati. Arrivate pure loro col battello e scese dov’è sepolto Eyup Halit Bin Zeyd, vecchio compagno del Profeta. Claudio ci spiega che l’islam è un rapporto diretto tra l’uomo e dio. E che la preghiera è molto personale. La gente quando esce da Eyup corre a far la fila nei meyhane, le taverne, avventandosi sulle pizzette con la carne macinata e il pomodoro. «Vivere in Turchia è una scelta particolare: significa stare in un Paese islamico al 98%. Ma significa pure vivere in mezzo a dei credenti», dice il nostro amico prete.
Il che dal punto di vista di un missionario, sebbene cattolico, è consolante. L’islam però qui è più che altro riferimento culturale, prima ancora che religioso. Passeggiamo di sera per i vicoli scoscesi e le salite che portano di nuovo alla torre di Galata. La mattina io e Alex ci ritagliamo del tempo per il caffè lavazza al sole, davanti alla torre che sembra quella delle favole Disney.
Un pomeriggio dopo aver camminato fino a svenire, raggiungiamo la moschea tonda e moderna di Sakirin, nel quartiere asiatico di Uskudar. Per me è una sorpresa: progettata da una donna (l’architetta turca Zeynep Fadillioglu) per le donne. Meditiamo al tramonto davanti al mihrab azzurro a forma di uovo, sotto gocce di vetro soffiato che pendono da un enorme lampadario di bronzo.
Quello che non capisco è come si fa a vivere in un Paese che sta perdendo progressivamente l’aspirazione alla democrazia, soffocato da un presidente come Erdogan che ambisce solo a un potere califfale e ad un ruolo egemone in Medio Oriente.
L’emergenza turca, conferma Claudio Monge, non è rappresentata dalla religione islamica ma dalla politica neo-ottomana di Erdogan. Il suo partito, l’Akp, dopo l’ultima vittoria elettorale può governare da solo, ma dovrà scendere a patti per cambiare la Costituzione in senso presidenzialista, come vuole lui. Ce ne accorgiamo meglio anche noi, arrivati in piazza Taksim. Quella che nel 2013 fece sperare in una rivoluzione dal basso anche in Turchia, quando il popolo occupò il Gezi Park per contestare Erdogan. Oggi quel parco e quella piazza non pullulano più. E lo slancio s’è spento.
«I movimenti della società civile non sono strutturati, non sono organizzati», confida padre Claudio. «Dovremmo sostenere un progetto più vasto, che va oltre i confini di una moschea o di una chiesa, e coinvolge i rapporti di vita nel quotidiano. Sono convinto che oggi bisogna superare l’artificiale contrapposizione tra credenti e cittadini.
I veri credenti sanno di dover essere cittadini leali e impegnati. Bisogna accettare di entrare in uno spazio che è fatto di valori condivisi, elaborati in un quadro di compromesso necessario: è questa l’arte politica». La politica ha il compito di tutelare «i diritti di tutti i cittadini, che implicano anche precisi doveri. Storicamente l’islam politico non è dissociabile dalla religione, ma anziché dire che l’islam non è compatibile con la democrazia (cosa secondo me non vera in assoluto), bisogna chiarire cosa intendiamo per “democrazia”».
Il mondo cattolico e l’Europa laica hanno, cioè, l’obbligo morale di schierarsi dalla parte dei valori universali. E questo in Turchia si traduce in una presa di posizione netta accanto a chi lotta per essere più libero.