(Questo articolo è stato pubblicato su Il Venerdì di Repubblica del 21 Ottobre 2022. Il pdf: I GUERRIERI_Dela_PIPELINE_di Ilaria_De_BonisIl_Venerdi_21_OTT_22).
La baia di Chongoleani, nascosta tra i baobab e le euforbie, è un piccolo Eden di sabbia sottile e conchiglie. Le radici delle mangrovie sfiorano l’acqua dell’Oceano.
Dal porto di Tanga la strada non è molta ma è interrotta. E ci costringe a prendere sentieri sterrati. L’unica guest house per pranzo offre piatti di riso speziato e latte di cocco.
«Tra un paio d’anni Chongoleani non sarà più la stessa – prevede Baraka Machumu, attivista ambientale – non so che fine faranno le mangrovie quando costruiranno la piattaforma per lo stoccaggio del petrolio».
Il WWF parla già di «significativa minaccia ambientale, deforestazione e disturbo della fauna selvatica».
L’attesa per mangiare è infinita, nel frattempo sorseggiamo con lentezza una birra Serengeti. In spiaggia i pescatori di chango, i pesci di laguna, intagliano con un’ascia pesante i loro catamarani.
Joseph Alipino ha 40 anni e quattro figli.
Dice che quando arriveranno le petroliere sarà molto difficile continuare a pescare e sa benissimo che il passaggio dell’oleodotto significa per lui dire basta all’attività ereditata da suo padre.
Il cantiere dell’East African Crude Oil Pipeline (Eacop) è già in funzione, ci lavorano operai tanzaniani e ingegneri thailandesi e francesi.
Ogni mattina decine di uomini in maglietta si presentano al check point dell’Eacop a chiedere un lavoro a giornata. Vengono da Tanga, ma anche da Tabora e Mwanza.
In viaggio sulle tracce dell’oledotto
«Abbiamo grandi speranze: questo progetto ci offrirà un’alternativa di vita – dice Hamis Ally – ho solo paura che si crei una competizione tra di noi».
È il 27 luglio del 2022 e questa è la prima tappa del lungo viaggio che ci condurrà dalla costa orientale della Tanzania fino a Singida, regione desertica, al centro del Paese.
Stiamo seguendo a ritroso le tracce dell’oleodotto più lungo al mondo.
L’infrastruttura misurerà a regime 1443 km e sarà ultimata nel 2025; attingerà il greggio a Hoima in Uganda, sul lago Alberto, per trasferirlo dopo lungo pellegrinaggio sotterraneo proprio nella baia di Chongoleani sull’Oceano indiano, alterandone l’ecosistema.
Da lì i barili di petrolio surriscaldato a 50 gradi prenderanno il largo per la Cina.
La pipeline entra nel parco nazionale di Murchison Falls, la più grande area protetta dell’Uganda, assieme alle riserve di Bugungu e Karuma, dove si muovono liberamente elefanti, bufali e coccodrilli.
Il lungo serpente di ghisa penetrerà poi nelle regioni di Handeni e Manyara, in Tanzania, dove vivono i Mbugwe e i Datooga, gli Akie e soprattutto i Maasai, allevatori di capre e mucche.
È lì che siamo diretti, nel cuore della savana: l’80% dell’oleodotto passerà per la Tanzania profonda, tagliandola praticamente in due.
L’Eacop è guidata dalla francese TotalEnergies, che investe al 62%, e dalla cinese CNOOC Limited impegnata all’8%; sono partner l’Uganda National Oil Company e la Tanzania Petroluem Development Corporation.
Ma è molto probabile che la Francia abbandoni l’impresa dopo la risoluzione del Parlamento europeo che stigmatizza il progetto.
Strasburgo denuncia la violazione dei diritti umani e l’ingiustizia nei confronti di oltre 118mila persone: «le compensazioni sono troppo basse per consentire agli espropriati di comprare altra terra e continuare a coltivare», scrive il PE, insistendo sulla parola unfair.
Oltre diecimila persone «sono a rischio imminente di sfollamento senza adeguate garanzie».
Eppure per il Pil di Uganda e Tanzania questo investimento potrebbe anche rappresentare una svolta.
«Saranno riconosciuti alla Tanzania 12,20 dollari per ogni barile di greggio in transito – ci spiega Federico Santi, ingegnere elettrotecnico e docente di ingegneria energetica all’Università di Dar Es Salaam – Il Paese potrebbe incassare quasi un miliardo di dollari l’anno, pari all’1,5% dell’attuale Pil tanzaniano».
Il beneficio economico «è tutt’altro che trascurabile – sostiene Santi – e se ben impiegato creerà sviluppo». Il governo assicura che l’oleodotto genererà in totale 18mila posti di lavoro.
Il business del petrolio fa gola a tutti
Yowery Museveni ha ribadito che l’Uganda non intende retrocedere di un passo e che se la Francia rinuncia troverà altri investitori. Circola l’ipotesi russa.
«In un modo o nell’altro estrarremo il nostro petrolio entro il 2025, come è stato pianificato», ha dichiarato il Presidente.
Eppure il giacimento di Hoima ha vita breve: si esaurirà nel giro di 25 anni ed è decisamente in controtendenza rispetto all’indicazione dell’Ue di non investire in combustibili fossili. La violazione dei diritti umani è oramai palese.
«Dal 2017 ad oggi l’Eacop bussa alla porta delle abitazioni in centinaia di villaggi della savana sia in Uganda che in Tanzania, per espropriare terreni e case», ci racconta Saitoti Parmalo, giovane Maasai del Pingo’s Forum, che negozia per conto delle comunità locali della Tanzania.
Gli espropriati saranno oltre 120mila. Andiamo a trovarlo nel suo ufficio ad Arusha e ci accoglie vestito con lo shuka tradizionale.
Saitoti dice che «i risarcimenti offerti sono variabili, in alcuni casi c’è pure un vantaggio per i singoli, ma mancano del tutto le compensazioni per la collettività».
Ossia i servizi sanitari, garanzie per la sicurezza, alternative per chi perde il campo coltivato. E molto altro.
Ma Saitoti sa bene che arrivati a questo punto «sarebbe un’utopia fermare del tutto l’Eacop, il progetto è troppo avanzato», dice.
Le ong possono però insistere sulle compensazioni: «l’obiettivo è un risultato win-win». O quasi.
Adam Mwarabu, anziano Maasai della ong Paicodeo ripete: «siamo stati guerrieri ed ora saremo negoziatori».
La strategia è prendere tempo, non cedere alla prima offerta dell’Eacop, valutare bene le contropartite.
Chiedere servizi sanitari, infrastrutture e scuole in cambio del transito dell’oleodotto, ad esempio.
Gli incontri tra la Compagnia e le ong si tengono quattro volte l’anno e il dialogo prosegue. Ma negoziare è una gran fatica.
Nella savana con le popolazioni sfrattate
Seguendo il tracciato della pipeline sulla mappa arriviamo ad Handeni, il quartier generale del business locale e da lì nella sperduta Kwamadule: la vegetazione è fitta, alle acacie si affiancano arbusti spinosi, baobab solitari e piante medicinali.
«Non è vero che qui c’è solo la savana, ci viviamo noi!», dice Kim Barnabas, 29 anni, insegnante di scuola primaria.
Contrariamente a molti altri Maasai ha studiato all’università di Arusha ed è poi tornato dalla mamma e dai fratelli nel villaggio dove passeranno le ruspe.
Con occhi luminosi e calma serafica ci racconta che chi ha accettato i risarcimenti offerti dall’Eacop prima del dicembre 2020 (ossia prima che i villaggi fossero rappresentati dalle ong) si ritrova adesso con un pugno di mosche in mano.
La signora Magdalena Leyani ad esempio nel 2019 ha firmato con l’impronta digitale del suo dito pollice un contratto preliminare.
«Non avevamo altra scelta che quella di cedere un ettaro e mezzo di terra all’Eacop – ricorda – in cambio ci daranno 40$. Io qui coltivavo mais e fagioli».
Non c’è rabbia nelle sue parole, solo molta rassegnazione. Sarà difficile nella savana trovare altri terreni adatti alla semina.
Kim ci porta dagli anziani Maasai del villaggio, la terra rossa brilla sotto il sole rovente.
Sono avvolti negli shuka scozzesi e hanno sguardi fieri mentre procedono in gruppo nell’area dove passerà l’oleodotto. Ce la indicano con meticolosa precisione.
Mariki Sekorei con espressione severa tiene in mano il bastone che scaccia i serpenti: è il capo della comunità e anche casa sua è stata espropriata, il risarcimento è di alcune migliaia di euro.
Ma i soldi non risanano la ferita di un villaggio tagliato a metà.
Nella zona sono oltre 4mila le persone toccate dal passaggio del petrolio, molte delle quali dovranno trasferire altrove i loro campi e i pascoli, nonché i siti sacri dove si venerano divinità ancestrali.
«Gli alberi sacri hanno un valore immenso: per gli Akie lì c’è Dio – ci spiega Adam Mwarabu – ma il tracciato dell’oleodotto li attraversa e non c’è verso di farlo arretrare».
L’Eacop si è offerta di pagare le cerimonie religiose che serviranno a consacrare nuovi terreni e nuovi alberi. «Ma questa non è una soluzione – dice Adam – sarebbe come se dicessero a voi di abbattere la basilica di San Pietro e di costruirla altrove!».
Andiamo a Napilikunya, quattro ore di jeep da Handeni, strada sterrata nella fitta boscaglia: ogni capanna di fango, rami e stracci giace sotto un baobab maestoso.
Gli oltre 500 abitanti Akie hanno accettato con grande sacrificio di “trasferire” i loro templi, ossia l’intera area sacra.
Mary e Simba ci accompagnano sotto il monte dove tutto è avvolto di silenziosa sacralità.
Sono turbati e incerti, temono di non aver capito bene. Il petrolio scorrerà esattamente sotto la loro terra. Ci chiedono perché. E noi non abbiamo risposte.
Ma in Africa orientale non c’è solo chi negozia, c’è anche chi combatte: gli ambientalisti non vogliono in nessun modo l’oleodotto.
Vanessa Nakate e Diana Nabiruma, attiviste ugandesi di Fridays for Future, partecipano alla Campagna Stop-Eacop composta da una trentina di ong ugandesi, keniote e francesi molto agguerrite.
Nel mirino c’è TotalEnergies, azionista di maggioranza: chiedono alla multinazionale francese di ritirarsi e alle banche di non finanziarla. Diversi istituti di credito hanno già mollato il progetto.
Il 23 marzo scorso gli attivisti hanno incontrato papa Francesco in Vaticano: «ho detto al Papa – racconta Nakate – che il gigante petrolifero francese distruggerà gli ecosistemi e danneggerà le popolazioni locali. Noi non possiamo bere il petrolio!».
Si parla di 34 milioni di tonnellate di anidride carbonica emessa nell’atmosfera ogni anno, un colpo di grazia per l’ambiente.
Sotto la terra arida e dura del villaggio di Mrama, nella regione di Singida manca l’acqua ma presto scorreranno fiumi di petrolio. E’ questo il grande paradosso.
Siamo arrivati nel cuore della Tanzania più secca, tra spettacolari rocce dalla forma ovale e tratti di deserto giallo.
«In cambio del transito dell’oleodotto vogliamo farci costruire pozzi d’acqua profondi, non sappiamo come irrigare i campi», ci dice il capo-villaggio di Mrama, Felix E Maluli.
Tra l’erba rada spuntano il sorgo e i girasoli secchi.
La società petrolifera per ora ha offerto agli abitanti di Mrama solo sementi per piantare nuovi alberi al posto di quelli abbattuti e corsi di formazione per prevenire l’Hiv.
Fatuma Juma Sinna è una donna di 45 anni con sette figli.
A lei e sua mamma hanno tolto la casa e la terra sulla quale crescevano alberi di mango. Dice che con i soldi del risarcimento, circa 4mila 700 euro, potrà costruire una casa più solida della precedente.
Nel campo espropriato c’era però anche la tomba di famiglia: le ossa dei defunti dovranno essere rimosse e il sepolcro trasferito altrove.
(Le foto sono di Ilaria De Bonis)