A due anni dal varo della nuova legge sulla Cooperazione allo sviluppo la macchina è ancora ferma. Il dibattito interno passa dallo scetticismo di chi teme l’ibridazione del settore pubblico e la finta filantropia dei privati, a chi pensa che la partnership pubblico-privato sia possibile ma non scontata.
La nuova Agenzia sarà all’altezza del compito?
Gli articoli 23 e 26 della legge aprono la Cooperazione davvero a tutti: dalle aziende ai sindacati, dalle cooperative al volontariato, dalle università alle fondazioni.
La vera novità è che vi rientrano per l’appunto soggetti con «finalità di lucro», qualora aderiscano «agli standard comunemente adottati sulla responsabilità sociale e le clausole ambientali, nonché rispettino le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali». E ci mancherebbe.
I paletti però sono ancora troppo vaghi e insufficienti.
Le parole chiave della cooperazione italian way rimangono: partnership, fare sistema, innovare e co-progettare. Quelle bandite o temute: delocalizzare e internazionalizzare.
Però il rischio che le aziende usino l’escamotage della Cooperazione per fare il proprio business resta.