Si chiamano shelter cities, città rifugio.
Ad Amsterdam, Groningen, l’Aja, Maastricht, Middelburg, in Olanda, esistono luoghi “protetti” dove gli attivisti dei diritti umani perseguitati in patria (dalla Siria al Pakistan, dall’Iraq a tutta l’Africa) possono riprendere fiato, cercare alleanze. Ricaricare energie e partorire idee prima di tornare sul campo.
La onlus Justice and Peace ha avviato, sempre in Olanda, un programma di protezione che dura dai tre ai sei mesi: un esempio di buona pratica nazionale che si aggiunge a quella del rilascio facilitato dei visti Schengen in funzione in Irlanda.
Nelle città rifugio i difensori dei diritti umani ricevono alloggio, copertura totale delle spese di viaggio e vitto, assicurazione sanitaria, una guida locale.
In Irlanda, Finlandia, Spagna, Olanda, Repubblica ceca, da anni, la protezione degli human rights defenders è una prassi che si avvale di diversi strumenti e leggi che aiutano davvero chi è in pericolo.
In Italia un sistema di accoglienza simile ancora non c’è. Ma c’è una Campagna di attivisti mobilitati per sbloccare il processo legislativo. Obbiettivo finale: introdurre un sistema di protezione legale statale ben strutturato.
Lo scorso 28 novembre se n’è parlato alla Camera dei deputati a Roma, con la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili e il comitato nazionale di un Ponte per… La Campagna è composta da una decine di sigle, tra cui Amnesty International e Giuristi Democratici.
«Noi siamo in prima linea ma non difendiamo solo noi stessi, difendiamo anche i diritti dei vostri figli; voi e il vostro futuro», spiega Zaidoun al-Zoabi, medico siriano di 42 anni, finito due volte in carcere sotto Assad, oggi rifugiato a Berlino, e a capo della Syrian Medical Relief Organization (UOSSM).
Poi ci sono avvocati, giornalisti, vignettisti e medici che nel loro Paese d’origine combattono ogni giorno contro le ingiustizie.
«Io non mi sento più in pericolo, ma so che non stiamo andando nella direzione giusta. L’India non è un posto sicuro. La gente è messa a tacere. Il Paese diventa sempre più nazionalista, il partito è come una religione».
A parlare è Aseem Trivedi, vignettista satirico indiano di 29 anni che nel 2012 è finito in carcere a Mumbai per aver sostenuto una campagna anti-corruzione con le sue vignette. Lo incontriamo nel corso del convegno romano: adesso è in qualche modo “protetto”. Ci racconta che prima di diventare un vero e proprio attivista lavorava per i quotidiani indiani.
Ma voleva qualcosa di più che far semplicemente “ridere” i lettori. «E così ho aperto il sito Cartoons Against Corruption – spiega -: la corruzione è il cancro del mio Paese».
Da qui il suo calvario: il sito è stato censurato e chiuso nel 2011. Lui arrestato a Mumbai nel 2012 accusato di “sovversione”. Oggi è libero.
Ma altre centinaia di persone in tutto il mondo rischiano ogni giorno il carcere. La tortura. O addirittura la pena di morte, soltanto per il fatto di voler contestare un governo o delle leggi sbagliate.
Biram Dah Abeid è un attivista africano a capo dell’Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista in Mauritania.
«Sono discendente di uno schiavo – ci spiega – Io sono stato condannato alla pena di morte nel mio Paese accusato di apostasia per avere dato alle fiamme il codice negriero della schiavitù ancora in vigore».
In questo Paese dell’Africa sub-sahariana la schiavitù è sulla carta abolita ma ancora una realtà: si stima che ci siano tra i 600mila e i 140mila schiavi.
Combatterla è una battaglia di civiltà per l’umanità intera, come ribadisce Biram.
Poi c’è l’Iraq.
«Quile più minacciate sono le donne: soprattutto quelle che si fanno sentire, come le giornaliste. Sia da parte del governo che delle forze armate riceviamo minacce e a Baghdad molte associazioni hanno chiuso. Alcuni attivisti per i diritti umani sono finiti in carcere e di loro non sappiamo più nulla», denuncia Nibras Almamuri dell’Iraqi Women Journalst Forum.
Creare una rete di sostegno europeo sempre più fitta e senza faglie è diventato indispensabile. Ma quali sono gli strumenti giuridici disponibili finora? Nel 1998 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la “Dichiarazione sui Difensori dei diritti umani”.
Il secondo passo è arrivato nel 2000 con la nomina di uno Special Rapporteur che ha il compito di concretizzarne l’attuazione. L’Unione Europea oltre a predisporre una “piattaforma di coordinamento per l’Asilo temporaneo dei difensori dei diritti umani”, ha anche adottato delle linee guida molto concrete.
E’ il gruppo di lavoro “diritti umani” del Consiglio dell’Unione europea ad individuare le situazioni nelle quali l’Ue è chiamata ad intervenire sulla base di relazioni periodiche inviate dai capi missione. In Europa l’avanguardia assoluta è rappresentata dalla Spagna che possiede il programma statale di protezione più efficace, in vigore dal 1999 e si adopera per accelerare il rilascio di visti speciali.
L’Italia oltre a non avere programmi per la difesa dei difensori, ha ancora molta strada da fare sul piano del rispetto dei diritti umani. L’International Service for Human Rights scrive che «l’ostacolo principale alla difesa dei diritti umani e del giornalismo in Italia è l’abuso della legislazione e del sistema giudiziario rispetto alla libertà d’espressione». A rischio sono in particolare gli attivisti che proteggono i diritti dei Rom e i giornalisti d’inchiesta che toccano temi “sensibili”.
Ma anche da noi qualcosa si sta muovendo.
In Italia la prima shelter city che accolga attivisti dei diritti umani perseguitati potrebbe sorgere a Milano.
La Campagna della società civile per gli Human rights defenders sta lavorando al progetto. In stretto contatto con il Ministero degli Esteri. Ma i passi vanno fatti uno alla volta, spiega Francesco Martone, tra i promotori dell’iniziativa.
«Anzitutto puntiamo a delle risoluzioni parlamentari per dare impulso al Ministero degli Affari Esteri affinché adotti linee guida vincolanti per i diplomatici. Stiamo incontrando informalmente i rappresentai del governo ed abbiamo un dialogo in corso».
L’obiettivo è la promulgazione di linee guida sul modello di quelle adottate di recente dal governo canadese che è tra i più avanzati in materia. Inoltre si vorrebbe istituire un “focal point” presso il Ministero per sviluppare meccanismi celeri di concessione di visti temporanei.
Ma come venivano protetti fino ad oggi i dissidenti nel nostro Paese? «Non che i perseguitati (soprattutto intellettuali e scrittori vittime dei regimi) in Italia non siano mai stati accolti», spiega l’attivista. Il sistema esisteva, ed era compreso ad esempio in quello internazionale chiamato International City of refugee network (ICORN). La Regione Toscana ha aderito al programma nel 2006 e ha contribuito a proteggere scrittori ed artisti perseguitati a Grosseto, Chiusi, Pontedera.
«Ma si è trattato per lo più di una protezione informale, oppure lasciata alla sensibilità soggettiva di diplomatici illuminati ed ong mirate».
Oggi si vorrebbe che lo Stato italiano si assumesse la responsabilità della protezione. Dopo le shelter city, il terzo passo è quello di adottare un programma di protezione da parte dell’Agenzia di Cooperazione, nata da poco più di un anno.
La difesa dei diritti umani è una parte fondamentale della Cooperazione allo sviluppo.
«Una volta che tutto questo sarà avviato, la Campagna in rete si trasformerà in un osservatorio sui difensori dei diritti umani e si sposterà gradualmente in ambito europeo e nazionale», conclude Martone. (pubblicato sul mensile Popoli e Missione di gennaio 2017)