Procede a ritmo serrato la costruzione della pipeline più grande d’Africa (e del mondo).
Uganda e Tanzania a febbraio scorso hanno firmato un accordo con le principali compagnie petrolifere francesi e cinesi per il via libera ad un progetto da 10 miliardi di dollari.
Soldi destinati alla costruzione dell’oleodotto della discordia, da anni al centro di grandi preoccupazioni, quando era ancora sulla carta: si tratta dell’East African Crude Oil Pipeline (Eacop), il cui lancio entra nel vivo in questi mesi.
Attivisti, ambientalisti internazionali, società civile ed abitanti dei villaggi contestano in ogni modo la grande opera.
In effetti è un mega-progetto invasivo che andrà a sventrare una foresta. E, dicono i suoi detrattori, non darà neanche lavoro alle comunità locali. Anzi.
«Toglierà loro il diritto alla coltivazione della terra», è l’opinione delle onlus ambientaliste.
Basti pensare alle misure: l’Eacop si snoda su 1.445 chilometri di infrastrutture incandescenti che pomperanno 216mila barili di greggio al giorno tra Uganda e Tanzania.
L’oleodotto parte da Hoima, nei pressi del lago Alberto (il settimo più grande d’Africa) e arriva fino a Tanga, il secondo porto più grande della Tanzania. Dove andrà a finire il petrolio?
Con ogni probabilità in Asia, specialmente in Cina, e nell’Europa che è parte del negoziato.
Poiché l’attuale guerra nel cuore dell’Europa, la crisi Ucraina e le sanzioni alla Russia, non lasciano intravedere nulla di buono sul fronte del rifornimento energetico, l’Africa si delinearsi sempre più come un’ottima alternativa sul fronte energetico.
Basti pensare che le riserve di gas della Tanzania sono ritenute le seste più grandi dell’Africa: in particolare Kilwa, Songo Songo e Mnazi nel sud della Tanzania, dove complessivamente giace un deposito di gas pari a circa 57 trilioni di metri cubi.
Questo progetto riguarda il petrolio, ma il gas resta una risorsa ancora non sfruttata e al centro degli appetiti occidentali e orientali.
Tra le compagnie interessate all’Eacop ci sono ovviamente quella di Stato tanzaniana, la Tanzania Petroluem Development Corporation (TPDC) e tre compagnie petrolifere straniere tra cui la francese Total.
L’allerta di ambientalisti ed attivisti è elevatissima; da oltre due anni una trentina di Ong ugandesi, francesi e congolesi sono mobilitate per ostacolare il progetto. Ma finora ci sono riuscite con scarsi risultati perché il finanziamento procede.
Eppure, «non possiamo mica bere il petrolio!», dicono gli abitanti.
L’investimento statale per questa “grande opera” che pomperà il petrolio dal sottosuolo attraversando fiumi, foreste e corsi d’acqua, è pari a 3,5 miliardi di dollari; un tubo di cemento che minaccia di alterare ulteriormente l’ecosistema africano. E anche di contribuire ai cambiamenti climatici.
Scrive Green Me che gli ambientalisti temono non solo che il progetto possa minacciare la fauna selvatica locale, ma anche «vanificare gli sforzi finora profusi per frenare il riscaldamento globale dovuto alle emissioni di CO2, trattandosi di investimenti nel petrolio, un combustibile “sporco”».
Quasi anacronistico, a loro av, rilanciare la produzione mondiale di petrolio in una congiuntura storica in cui la pandemia ha fatto crollare la domanda e i prezzi degli idrocarburi.
Il punto è proprio questo: il mercato spinge verso l’elettrico e l’energia verde per cui una infrastruttura come questa rischia tra pochi anni di dover essere dismessa per mancanza di domanda.
«Alle famiglie ‘sfrattate’ hanno dato un indennizzo e a molte persone hanno fornito delle case in muratura in zone lontane, è vero; ma ci sono state proteste perché le famiglie non sanno dove mettere i loro animali e anche perchè lì coltivavano la loro terra», ci racconta don Sandro De Angeli, fidei donum della diocesi di Urbino, da oltre cinque anni a Moroto, nel Nord dell’Uganda.
Ci spiega che «questo oleodotto anzitutto distruggerà l’ambiente attorno al Lago Alberto, che è una delle risorse più grandi del Paese; e poi non sarà assolutamente un bene per chi vive in queste aree.
Il ritorno economico è a vantaggio delle aziende petrolifere interessate, tra cui la Total, non certo delle popolazioni locali».
Il petrolio verrà estratto in Uganda e condotto attraverso la Tanzania: Dickens Kamugisha, direttore esecutivo dell’Africa institute for Energy Governance (AFIEGO) con sede a Kampala, ci spiega che «TotalEnergies guida entrambi i progetti, sia quello dell’infrastruttura Eacop, che quello di estrazione del gas e petrolio nel bacino del lago Alberto, il cosiddetto Tilenga project».
«Per noi – dice Kamugisha – attaccare la Total significa lottare per fermare l’intera filiera, dall’estrazione al trasporto del greggio». Gli attivisti parlano chiaramente di greenwashing: «Total difende l’indifendibile».
La prima delle rassicurazioni, riferisce la Reuters, riguarda una supposta restrizione dell’area del Parco delle cascate utilizzata per far passare l’oleodotto.
Nel progetto iniziale si parlava di permessi per il 10% della superficie, adesso la multinazionale ridimensiona all’1%.
La Total vorrebbe incrementare inoltre del 50% il numero dei ranger che tutelano il parco. Ma si tratta di poco più che palliativi.
«Al momento la Total non ha alcun piano completo di “mitigazione” per evitare o ridurre i rischi legati alla biodiversità e alle comunità», ci spiega anche Dikens Kamugisha.
L’inizio dei lavori di costruzione dell’oleodotto è stato fissato per luglio e le prime esportazioni di greggio partiranno nel 2025.