Fermare il traffico di esseri umani dall’Africa sub-sahariana al continente europeo, stipulando accordi bilaterali con i Paesi d’origine dittatoriali è una strategia perdente. Non lo impedisce solo il diritto umanitario, le convenzioni internazionali ecc… ma lo mette in dubbio persino la real politik.
I flussi copiosi di uomini e donne che fuggono da guerre e miserie «troveranno sempre strade alternative verso l’Europa», come spiega il giornalista e ricercatore Giuseppe Acconcia.
La Libia è chiaramente un Paese di transito a rischio prigione per i tanti migranti che ci finiscono dentro. Ma c’è di più.
«Accade – dice Acconcia – che chi riesce a partire entri in una sorta di business delle migrazioni sempre più sottile. Scafisti corrotti, membri delle milizie o esponenti di gruppi paramilitari al Nord della costa libica, attivano meccanismi di controllo.
Molti pubblicizzano su facebook il loro gommone, vendendo posti in sottocoperta» sempre più affollati. Il risultato è che, impedito un canale, semplicemente se ne apre un altro. Tanto più che la Libia non è controllabile da cima a fondo e i trafficanti la conoscono meglio di chiunque altro.
«Anche in passato gli scafisti si sono spostati semplicemente più ad est», spiega il giornalista.
Ad essere penalizzati, dunque, sono i soli migranti costretti a più lunghe detenzioni nel deserto.
Ma non finisce qui: la “strategia” europea prevede anche fondi (African trust fund) da destinare ai governi che collaborano nei respingimenti. Peccato che tra i “collaboratori” rientrino veri e propri dittatori.
Ma entriamo più nel dettaglio dell’odissea migrante tra deserto e mare, cercando di capire perché il traffico è cosa complessa, davvero inarrestabile e parte ben prima della Libia. Infine vediamo a chi vanno i nostri soldi.
La via dell’inferno
Seguendo il flusso delle rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana alle coste libiche, ci accorgiamo che la “via dell’inferno” è lunga, frastagliata e completamente nelle mani di uomini avvezzi al deserto. Molto utili sono le mappe delle rotte migratorie messe a punto da Medici per i diritti umani (Medu), grazie ai racconti degli stessi migranti. Partiamo dal Niger: Agadez è la capitale dell’Air, una delle tradizionali federazioni Tuareg. Insieme ad Al-Qatron e Sabha è una tappa del viaggio: il punto di raccolta dei migranti che vogliono attraversare il deserto del Sahara, diretti in Libia o in Algeria. Ad Agadez si trovano numerosi foyer dove i ragazzi arrivano e aspettano, qualche volta giorni, qualche volta mesi.
Dovranno lavorare per pagarsi la traversata. Da lì i trafficanti verranno a prenderli per portarli in piccoli gruppi verso la Libia. Ma qui l’odissea non è che all’inizio.
La rotta verso la libertà è ancora lunga: un percorso a ostacoli puntellato di tappe, villaggi e check point. In ognuno di questi illegali punti di raccolta o “caselli” nel deserto, conosciuti solo ai trafficanti, i ragazzi e le donne in viaggio perdono un pezzetto alla volta la loro dignità.
Per di più sono costretti a pagare una somma di denaro ad ogni check point gestito dai trafficanti.
L’odissea dei resilienti
«Il viaggio dal Mali al Niger è durato quattro giorni ma abbiamo dovuto pagare molti soldi ad ogni linea di confine attraversata – racconta I.S., 33 anni dal Gambia, intervistato dagli operatori di Medu al Cas di Ragusa – Ad un certo punto ci hanno diviso in gruppi: i gambiani da una parte e i nigeriani dall’altra e ci hanno imposto di pagare 15 dollari a testa. Un amico ha pagato per me. Ma dopo 100 metri c’era un altro check point e io mi sono rifiutato di pagare altri soldi così mi hanno messo in detenzione per cinque ore e mi hanno picchiato violentemente.
Quando mi hanno rilasciato, oramai il mio bus se ne era andato e così ne ho dovuto aspettare un altro, e pagare altri 15 dollari». Altra tappa dell’odissea sulla via della Libia è l’oasi di Dirkou, nel mezzo del deserto del Teneré: anche lì le persone possono essere arrestate ai check-point e subire violenze.
L’ambasciata tedesca denuncia
Una volta arrivati in Libia li attende il vero calvario: qui subiscono esecuzioni, torture e abusi sessuali.
«Foto e video girati con i cellulari testimoniano delle condizioni nei campi libici, in tutto simili a quelli di concentramento, nelle cosiddette prigioni private»: scrive l’Independent. Questo materiale, raccolto e riportato dal quotidiano, arriva dalla stessa ambasciata tedesca in Niger, che a febbraio scorso ha trasmesso il dossier al proprio governo. Berlino, pur sapendo, non vuole prendere sul serio le denunce.
O semplicemente i capi di Stato e di governo dell’Ue non sono interessati davvero a contrastare il traffico di esseri umani. Il loro obiettivo è esclusivamente quello di impedire che le persone arrivino sulle nostre coste: che fine poi facciano i migranti rimasti in Libia non è affare loro.
E così, mentre le agenzie delle Nazioni Unite, gli attivisti, le stesse ambasciate, preparano dossier agghiaccianti sulle torture e le violenze, i 28 Paesi dell’Unione, riuniti a La Valletta, danno l’ok definitivo ad una “strategia” tutta basata sugli accordi bilaterali, nata nel 2014 con il cosiddetto “Processo di Khartoum”.
Il futuro sarà fatto di accordi tra un singolo Paese europeo e la controparte africana, sul modello di quello Ue-Turchia. Sebbene non sia una novità: l’Italia in Libia già con Gheddafi aveva in piedi simili memorandum of understanding.
Fondi italiani a Bashir
«C’è stata un’accelerazione collettiva sulla politica dei “trust fund” e degli accordi bilaterali – scrive il sito di Per un’altra Città – La Commissione europea ha promesso di erogare 1,8 miliardi di euro, chiedendo agli Stati membri di contribuire con la stessa somma, per lottare contro le cause profonde dell’immigrazione irregolare. La parte impegnata dall’Italia al momento è di 10 milioni di euro». Il totale ammonta a 200 milioni di euro, come deciso a Malta. L’idea, in estrema sintesi, è questa: mettere a disposizione dei fondi per quei Paesi africani disposti a collaborare sul controllo dei migranti, facendo però passare queste somme come contributi alla Cooperazione allo sviluppo. Ma in mano di chi sono i Paesi ai quali si concedono grosse quantità di denaro? A dittatori della peggior specie, come il sudanese Omar Al Bashir. Esattamente lo stesso uomo che nel 2008 il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, aveva accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur. Risale al 3 agosto scorso il memorandum d’intesa siglato tra il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno italiano e la polizia nazionale del medesimo dicastero sudanese.
Obiettivo? La «gestione delle frontiere e dei flussi migratori» e le linee guida «in materia di rimpatrio», vi si legge.
Rimpatri forzati
Ma l’Italia è andata ben oltre: ha messo in atto il 24 agosto scorso un rimpatrio forzato di 40 sudanesi, rispediti contro la loro volontà nuovamente a Khartoum. A sei mesi dai fatti, cinque di loro, grazie ad un team di attivisti, avvocati (tra cui lo stesso Belluccio dell’Asgi) ed eurodeputati del GUE, si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo facendo ricorso contro l’Italia. Dario Belluccio ci spiega come siano riusciti nell’impresa:
«Alcune di quelle persone, per vari motivi, non erano state rimpatriate: noi quindi siamo entrati in contatto con loro. Tutte avevano ottenuto lo status di rifugiato.
Ci hanno fornito i riferimenti di alcuni dei sudanesi rimpatriati, e così siamo andati a cercarli direttamente in Sudan: è stato un lavoro impegnativo e lungo. Li abbiamo trovati nei sobborghi di Khartoum, in uno stato di precarietà assoluta. Non possono far ritorno nel Darfur e gli è stato anche tolto il passaporto».
La polizia italiana ribatte che il gruppo non ha voluto chiedere la protezione internazionale in Italia, ma «noi contestiamo questa versione – dice Belluccio – e tuttavia anche se non avessero voluto farlo, l’Italia aveva l’obbligo di non rimpatriarli in Sudan e questo sulla base dell’art. 3 del Convenzione Europa dei Diritti dell’uomo, e dell’articolo 3 di quella contro tortura, dell’art 19 del testo unico sull’immigrazione». Che vieta il rimpatrio in un Paese dove si possa essere in pericolo di vita.
«E’ evidente che per alcune istituzioni italiane esistono i margini per ritenere il Sudan un Paese sicuro; non so proprio su quali basi possano affermarlo», aggiunge l’avvocato.
I soldi concessi a Bashir, dunque, sono destinati quasi del tutto a “politiche securitarie”: lo denuncia anche l’eurodeputata Barbara Spinelli che ha svelato come una parte di quei 173 milioni di euro italiani, sarebbero destinati alle Rapid Response Unit, gruppo paramilitare utilizzato dal governo sudanese per controllare le frontiere del Sahara e già protagonista, come milizia delle tribù “Janjaweed”, dei massacri commessi in Darfur.
Infine, l’African Trust Fund dell’Ue ha aggiunto una propria somma a quella generosamente concessa dal Viminale: 878,8 milioni di euro per il controllo delle migrazioni nel Corno d’Africa, con un extra bonus di 115 milioni di euro per il Sudan. Il Fondo per lo Sviluppo ha invece piazzato 1,98 miliardi di euro come “misura speciale” per il Sudan.
In generale il Trust fund è finanziato con i soldi del Fondo europeo per lo sviluppo, ma per contrastare realmente la povertà rimangono briciole e per di più mal spese.
(pubblicato su Popoli e Missione di marzo 2017, clicca qui per il pdf dell’articolo in versione originale)
(foto tratta da IRIN NEWS )