L’hanno chiamato l’«Hirak di Jerada»: è il movimento di protesta popolare nella zona delle miniere clandestine nel nord-est del Marocco desertificato (Jerada appunto).
Dove i minatori muoiono mentre estraggono illegalmente il carbone dai siti abbandonati. Privi di qualsiasi tutela e di una benchè minima protezione fisica, questi uomini si affannano a cercare il minerale nero per rivenderlo alle società concessionarie.
Il nome “Hirak”, dato alla protesta che vede protagonista la gente comune, è in assonanza con quello di lotta organizzata dai pescatori poveri del Rif berbero, da qualche anno in forte polemica col governo di Saad Eddine.
Queste due regioni (Jerada e Rif) in effetti sono la crepa nel muro del regno di Mohammed VI che vorrebbe intervenire ma non sa come. Sono la prova dell’esistenza di due (o forse tre) Marocco differenti: quello centrale e cittadino, turistico e ancora irrorato di finanziamenti occidentali, e quello periferico e desertico del nord e nord est.
La costa bella e povera del nord non somiglia affatto alle città costiere dell’Ovest coloniale come Casablanca, o alle attrazioni turistiche sfavillanti e abusate come Marrakesh. La regione semidesertica di Jerada non pare neanche far parte dello stesso Paese sponsorizzato dai regnanti come la perla del Nord Africa, ricca di nuovi investimenti e progetti infrastrutturali.
Jeune Afrique e Le Monde hanno cominciato a parlare del movimento delle miniere da quando a fine dicembre scorso due fratelli sono rimasti incastrati nelle cavità della terra e sono morti. Avevano 23 e 30 anni.
«Houcine et Jedouane, sono deceduti in seguito ad un incidente nelle gallerie – scrive Le Monde- Il doppio decesso ha causato collera e turbamento a Jerada», dove la gente ha cominciato a scendere in strada a manifestare.
A marzo poi è morto un altro minatore: Fethi Kettari, rimasto fulminato dai cavi elettrici.
Ma come si può morire in miniera nel XXI secolo in un paese che si vanta d’essere la prima economia del Nord Africa?
Il fatto è che queste non sono vere e proprie miniere: le società minerarie che hanno ottenuto il permesso di sfruttamento del sottosuolo dopo la chiusura della compagnia di Stato Charbonnage du Maroc, nel 1998, non hanno mai creato un vero e proprio bacino industriale.
«Si sono limitate a comprare il carbone estratto illegalmente dai minatori su loro concessione, senza stipendiarli in alcun modo», spiega il quotidiano La Libre.
L’estrazione del carbone è lasciata alla libera iniziativa dei singoli, senza attrezzature, senza protezione, senza indennizzo in caso di incidente. E’ il far west delle miniere clandestine. La storia però è più lunga e più complessa di così e fa parte del processo di privatizzazione e deindustrializzazione del Paese.
Come molte altre ex colonie francesi, anche il Marocco non ha retto al passaggio di consegne.
Negli anni Venti del 1900 la zona di Jerada con 43mila abitanti si era sviluppata molto grazie allo sfruttamento del carbone: di mezzo c’erano i francesi, con la Charbonnages du Maroc che poi sarà nazionalizzata negli anni Settanta.
Tra il 1927 e il 1998 la società del carbone sarà la maggiore industria estrattiva del Paese e darà lavoro a 9mila persone. Nel 1998 entra in crisi e viene liquidata: nel 2001 non esiste più. Viene abbandonata.
Il Marocco diventa sempre più un Paese dove non si produce ma si costruisce. Un Paese che vuole fare commercio ma non ha industrie. I minatori non riescono a riconvertirsi in altro e continuano ad estrarre minerali senza essere stipendiati.
La ricerca del carbone è un po’ come la corsa all’oro: non lo si trova da un giorno all’altro. I minatori si devono organizzare tentando la fortuna.
«Ci ritroviamo in due o tre e decidiamo di scavare utilizzando un martello e un piccone», racconta un minatore che vuole rimanere anonimo a Les Observateurs.
«Scendiamo ad una profondità che va da 5 a 70 metri e di norma ci mettiamo non meno di un anno e mezzo per trovare del carbone e dunque terminare la creazione dei pozzi». Tutta questa fase preventiva di esplorazione e perforazione del sottosuolo non è remunerativa: «Non vediamo soldi finchè non estraiamo carbone», raccontano gli operai.
Per mesi e mesi quindi non guadagnano nulla. E una volta iniziato a trovare il carbone i guadagni sono molto variabili: una giornata di lavoro può fruttare dieci euro o anche nulla.
Ma il peggio deve ancora arrivare: i tunnel, le gallerie, i pozzi, la profondità dei buchi, sono potenzialmente pericolosi: se capita un incidente si muore.
In vent’anni sono morte 18 persone, ma il numero è aumentato negli ultimi sei mesi: da dicembre ad oggi sono morte tre persone. Adesso i minatori chiedono al governo di Saad Eddine un’alternativa economica. Cercano altre possibilità di impiego meno pericolose e più remunerative.
Il re Mohammed, peraltro ancora molto amato nel Paese, considerato una specie di autorità religiosa (non c’è ristorante, albergo, locale di Casablanca o Marrakesh che non esponga la sua foto nell’atrio), cerca di rassicurare il popolo ma non ci riesce. Più le proteste si fanno numerose e visibili, più scatta il pugno di ferro: il Marocco è pur sempre un Paese autoritario, sebbene il re abbia sempre addolcito i ribelli promettendo riforme.
E quando in strada la gente è tanta ed arrabbiata, non mancano randellate e carcere.
E’ accaduto a Mustapha Dainane e a Amine Mkallech, due leader del movimento di protesta di Jerada arrestati il 10 marzo scorso.
Le autorità si sono affrettate a chiarire che gli arresti non sono collegati alle proteste dell’Hirak di Jerada, ma che i due sono stati fermati per aver ostacolato il traffico in città. Ma è chiaro che il tentativo è quello di arginare la ribellione per evitare che si crei un altro polo anti-governativo come quello del Rif.
Allo stesso tempo il re continua a promettere la riforma di «un modello economico ormai obsoleto», come lui stesso l’ha definito. Assicura che il Marocco ha bisogno di uno sviluppo integrato e che i giovani sono il vero capitale del Paese.
Sta di fatto che il numero dei giovani disoccupati invece continua a crescere. E che il modello di sviluppo promosso di Mohammed ripete lo schema fallimentare delle grandi opere: molto fumo e poco arrosto.
Come l’ultima perla: Marchica. L’Economist ne parla come del «primo di sette eco-resort progettati per la costa del Nord e fa parte di un programma decennale per sviluppare il turismo».
In effetti Mohammed punta tutto sul turismo: ma bastano le mega-infrastrutture e le città extralusso finanziate dai cinesi per poter dire che promuoverà nuova occupazione reale, creando punti percentuali di Pil? E poi, siamo sicuri che il popolo non chieda anche altro?
Nel Rif la gente vuole ospedali, case e servizi. Il sindacalista Abdessamad Habbachi ha reso noto che «le misure proposte dal governo hanno dei lati positivi ma restano globalmente insoddisfacenti». E così il gap tra grandi città ed entroterra si allarga e il Marocco continua a spaccarsi in due.
Le crepe del muro di Mohammed sono talmente evidenti che non può più nasconderlo agli occhi del mondo: i media francofoni registrano ogni movimento, ogni sussulto delle proteste dal basso.
La disoccupazione e la povertà generano nuove ondate di migrazione: quelle verso l’Europa, alla ricerca di un sogno e di una vita migliore, alla ricerca di un’America che dall’altra parte del Mediterraneo non c’è mai stata.