Si può immaginare un mondo più consapevole e illuminato che anziché opporsi tout court all’attuale modello industriale ne faccia un proprio alleato nell’economia di pace, partendo da una riconversione progressiva della produzione bellica in industria civile? Una riconversione economica in questo senso non solo è auspicabile (e lo choc pandemico ce lo insegna), ma necessaria, poiché porterebbe un benessere diffuso e una più equa ripartizione delle risorse. Insomma agirebbe sulla leva della ricchezza.
La task force di esperti nominati dal Vaticano per affrontare le sfide del post Covid (Commissione guidata dal cardinale Peter Turkson) già da un po’ lavora al tema. Ha fornito interessanti spunti di riflessione, partendo dalla constatazione che è necessario comprimere la spesa militare e riconvertire il comparto bellico.
Nell’équipe c’è anche l’economista suor Alessandra Smerilli, Figlia di Maria Ausiliatrice, una sorta di mediatrice geniale, una donna del dialogo e dell’azione, che parla di una spesa pubblica da orientare meno verso il settore degli armamenti e più votata al finanziamento della Sanità pubblica.
«Le industrie delle armi non sono pronte per questa svolta – precisa lei – Tuttavia alcune fabbriche hanno in parte riconvertito le loro produzioni militari durante la quarantena; come è stato fatto nell’urgenza della crisi pandemica, così può essere realizzato anche in seguito. In quei momenti abbiamo imparato in un attimo».
Dalle armi ai respiratori polmonari
Perché non andare avanti su questa strada allora? Nei mesi convulsi della primissima diffusione del Covid in effetti, molte aziende italiane che producono pezzi di motori, parti di velivoli per l’aeronautica militare, e addirittura fucili ed armi leggere, hanno fatto a gara per accaparrarsi fette di mercato “sanitario”.
In quel momento hanno pensato bene di assecondare la domanda di mascherine, ventilatori e gel disinfettanti. Segno che quando l’emergenza si allea con la creatività, la volontà e soprattutto gli investimenti, i miracoli avvengono, eccome. Semplicemente perché non si tratta di miracoli ma di un adeguamento alla legge della domanda e dell’offerta.
Solo per fare un esempio, la Siare Engineering con sede a Crespellano, l’unica azienda italiana che produce ventilatori polmonari, durante la crisi è stata affiancata da diverse aziende nella raddoppiata produzione di respiratori. Alcune piccole industrie del Sud Italia si sono “riconvertite” per sostenerla.
E persino la contestatissima Beretta di Brescia, si era candidata a produrre, in tempi di lockdown, assieme alla Isinnova (azienda bresciana attiva nella ricerca e sviluppo) l’anello di raccordo mancante nelle famose maschere della Decathlon riadattate a respiratori. Per farlo la Beretta aveva riaperto il dipartimento per i polimeri usato per la prototipazione 3D dei modelli delle armi, per adattarle alla produzione delle valvole a due vie. Certamente lo scopo non era solo umanitario ma anche economico e d’immagine, e tuttavia l’industria bellica ha dimostrato che, volendo, sostenuta da buone commesse, può facilmente cambiare o riorientare ed integrare i propri obiettivi produttivi. Lo scenario globale potrebbe essere ben diverso se solo si ripensassero i modelli di sviluppo orientandoli verso orizzonti di pace anziché di guerra.
Ne è un esempio evidente la battaglia (che prosegue ormai da anni) del Comitato cittadini di Domusnovas in Sardegna, per la riconversione della RWM da fabbrica di bombe (le stesse lanciate dall’Arabia Saudita sullo Yemen ecc…), a industria civile. Buona parte del fatturato di questa multinazionale – il gruppo tedesco Rheinmetall con sede a Berlino – che produce ordigni micidiali negli isolati capannoni industriali del Dulcis Iglesiente sardo, proviene dal settore civile.
«Niente le impedirebbe di convertire al civile anche le produzioni dell’isola», ha scritto il Comitato in una nota. «E invece persistono investimenti finalizzati ad incrementare la produzione di armi, che prevede un tipo di occupazione meno stabile e continuamente soggetta alle fluttuazioni del mercato».
Ma poiché la torta della spesa pubblica non è infinita, puntare sulle armi significa, per un Paese come il nostro, decidere di investire meno in Sanità, Istruzione e Ricerca e maggiormente nel comparto della Difesa. È una precisa scelta politica che alla lunga non paga. L’emergenza Covid lo dimostra appieno: la guerra stavolta ce la sta facendo un virus. Le pandemie, è evidente, non si affrontano con le armi ma con una rete integrata di Sistema Sanitario Nazionale efficiente, personale sanitario non sottostimato e una Sanità territoriale che regga.
«Le forniture mediche, la sicurezza alimentare e la ripresa economica incentrata sulla giustizia sociale e sull’economia verde, richiedono risorse che possono essere sottratte al settore militare nel contesto di un rinnovato controllo degli armamenti», commenta anche Alessio Pecorario, coordinatore della task force Sicurezza della Commissione vaticana.
Di recente, dopo ben 20 anni dall’ultima, è stata nuovamente lanciata un’iniziativa trasversale che va ad incidere sulla consapevolezza dei risparmiatori: la Campagna di pressione sulle “banche armate”.
È sostenuta tra gli altri da Cimi (Conferenza Istituti Missionari in Italia), Pax Christi e diverse riviste missionarie tra cui Nigrizia.
Ed è stata lanciata non a caso proprio a Brescia, sede della fabbrica Beretta. In occasione dei 30 anni della legge n. 185 (9 luglio 1990) che ha introdotto in Italia “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” e a 20 anni dal lancio della prima Campagna, i rappresentanti del mondo missionario hanno sentito l’urgenza di tornare su questo tasto cruciale.
Però stavolta c’è una novità rispetto al passato: non si vuole demolire il sistema bancario, ma si cerca di farselo “alleato” nella lotta contro la guerra. L’obiettivo è passare «dalla mira verso l’investimento per la morte» a quella verso «l’impegno e l’investimento per la vita», hanno spiegato i promotori della Campagna. Anche perché abbiamo capito che siamo tutti sulla stessa barca. «Ogni volta che abbiamo cercato di interloquire con loro, le banche sono state molto attente – ha precisato don Renato Sacco –: dobbiamo andare a giocare su questo campo: porre loro tutti questi problemi etici».
«Se una parrocchia chiude il conto in una banca – ha detto don Sacco – questo è un gesto che colpisce», perché pone seri interrogativi. «Non è vero il detto: “Pecunia non olet”. Pecunia olet, ma io sono fiducioso in un grosso rilancio dal basso».
I missionari hanno tutta la credibilità necessaria per parlare di questo tema: sono in trincea laddove quelle stesse armi vengono usate nei conflitti a bassa intensità o nelle guerre esplicite, per annientare popolazioni inermi e alimentare le lotte di potere. I missionari testimoniano costantemente dell’uso spregiudicato delle armi leggere (e pesanti) in Centrafrica come in Nord Kivu, in Sud Sudan come in Mali e in Niger ed Eritrea.
Ecco perché un’economia di pace, anziché di guerra, sarebbe di grande supporto ad una geopolitica mondiale orientata alla risoluzione dei conflitti anziché alla loro diabolica alimentazione.