«E’ appena stato qui don Luca… E’ passato da casa mia e m’ha portato un messaggio di mio marito da Rebibbia. Ma è ancora in zona, se girate per i lotti prima o poi lo beccate. So che andava a visità una signora ammalata».
A Bastogi – ex residence su via Boccea per sfrattati in perenne attesa di casa – è impossibile non conoscere Luca Filippi, “il prete che vive con i rom”.
Ed è anche impossibile rintracciarlo. Se non inseguendolo letteralmente nei suoi mille spostamenti in motorino.
Don Luca non ha il cellulare. Al telefono fisso non lo si trova quasi mai. E’ un furetto in movimento, a servizio della gente. Una specie di ponte tra il fuori e il dentro. Tra i ‘sommersi’ e i ‘salvati’. Tra gli esclusi e gli inclusi: il mondo del carcere e quello della libertà. I ghettizzati e il resto del mondo.
Quarant’anni, secco come un’acciuga, atletico, accento molto romano, capelli arruffati, la barba d’un giorno, gli occhi puri che guardano dritto negli occhi, senza filtri. Quando sorride hai la netta sensazione che stia sorridendo proprio a te. Non ha retropensieri. Non cerca retropensieri.
Non si chiede perché vuoi parlare di lui. Non si difende.
Questo è don Luca. Entra con delicatezza nei drammi personali e famigliari, nei frammenti di vita delle persone. Nelle quotidianità impossibili.
«Quando l’ho visto la prima volta gli ho detto: ma che sei un prete te? Ma nun me fa ride! Nun s’è mai visto un prete così, tutto arrangiato, senza manco na croce», racconta Silvana (49 anni, disoccupata, senza fissa dimora, ex alcolizzata, vittima di violenza domestica), oggi sua fedelissima parrocchiana.
Sempre in tuta e scarpe da ginnastica, niente talare, quando dice messa Luca indossa la tunica bianca sulla felpa blu.
Effettivamente non lo diresti un prete. Non solo perché ha rinunciato allo stipendio del sostentamento del clero. Ma anche perché vive in casa con una famiglia rom, ha ‘abbandonato’ la parrocchia, lavora per pagare l’affitto. Non è uno di quei preti di strada, ‘vicini ai poveri’, ma è lui stesso “povero”, nel senso che non possiede se non quel poco che guadagna con dignità.
Per mantenersi pulisce gli androni dei palazzi, fa l’idraulico, inventa lavoretti. Raccoglie il ferro assieme ai raccoglitori del ferro. Accetta lavori a giornata.
Ma soprattutto le sue messe sono un’esperienza.
Non esiste una chiesa a Bastogi: solo una cappella allestita in un locale al piano terra di uno dei sei lotti, col perenne odore di sudore nell’aria, e il bambù alle pareti al posto del tabernacolo.
La domenica alle 11 si celebra la messa di don Luca. Quando lui arriva apre l’armadietto sbilenco, indossa la veste bianca, gioca con i bambini, prepara le ostie, stende sull’altare il lino immacolato.
Poi si siede e aspetta. Salvatore, Silvana, Donatella, Silvia, i bambini, arrivano alla spicciolata, lo salutano col cinque.
La lettura del vangelo è un racconto di vita comunitario.
Niente prediche, nessuna separazione tra sacerdote e fedeli.
Capita che durante la messa lui si avvicini per dare la benedizione ai nuovi arrivati. Capita che ti chiami per nome. Capita di sentir raccontare una storia che riguarda te e riguarda tutti.
Il Padre nostro è una preghiera mano nella la mano, la comunione non la si riceve la si prende dal calice.
Luca ha scelto di stare dentro, di essere uno fra tanti. «Senza distanza tra me e gli altri. Senza altare», spiega.
Il vangelo non lo vuole solo leggere, riesce a viverlo dall’inizio alla fine.
(report di Ilaria De Bonis e Sebastiano Luciano – foto Sebastiano Luciano)
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