A Mocímboa da Praia, città portuale sull’Oceano Indiano, è tornata la calma.
Sono passati cinque anni da quando gli uomini armati affiliati (almeno a parole) ad Al Shabab, hanno preso il potere per la prima volta, e un anno da quando se ne sono andati.
Questo centro di Cabo Delgado, a nord del Mozambico, dedito alla pesca e all’agricoltura, è stato liberato nel 2021.
E la gente è tornata a sorridere. Ma il timore non infondato che i fucili e la violenza siano ancora dietro l’angolo, è qualcosa che serpeggia nell’atmosfera.
«La calma che vediamo oggi è frutto delle nostre forze che lavorano nella giungla per tenere lontani i terroristi», racconta Ricardo Mendes, venditore ambulante, in una intervista contenuta in un video molto raro pubblicato da Africa News.
Ma si può vivere col timore costante che i gruppi armati facciano irruzione di nuovo?
Nonostante il sollievo per la relativa sicurezza, gli abitanti di Mocímboa da Praia (quelli che restano, almeno, poiché la maggior parte è fuggita al sud) affrontano anche un altro nemico: la fame.
La fame dopo il terrore
«Oramai mangiamo soltanto riso e fagioli», si lamentano. Non si produce granché a Cabo Delgado. Coltivare la terra richiede costanza e presenza.
Mentre da anni la gente vive col fiato sospeso e l’urgenza di fuggire. Inoltre la pesca è inibita dalla presenza delle piattaforme del gas offshore al largo dell’Oceano.
Anche l’Eni, che in realtà non ha mai chiuso i battenti pure durante i mesi peggiori della guerriglia, è tornata in forze nella zona super blindata.
Coral South dell’Eni è il primo progetto «approvato per lo sviluppo delle risorse di gas scoperte nel bacino di Rovuma, al largo del Paese», scrive la multinazionale.
Prevede la produzione e la vendita del gas contenuto nella parte meridionale «del giacimento, mediante un impianto galleggiante di liquefazione di gas naturale con una capacità di 3,4 milioni di tonnellate, alimentato da sei pozzi sottomarini».
In altre parole questo significa un enorme impatto ambientale e la scomparsa dei pesci in mare: la sua gigante «unità galleggiante di liquefazione del gas», in fase di partenza, viene definita dall’Eni come un «vero gioiello della tecnologia». E dal suo punto di vista certamente lo è.
Questa piattaforma ancorata a 2mila metri sotto il livello del mare sarà la prima del continente africano e la terza nel mondo. È lunga 432 metri e larga 66: avrà un peso totale di circa 220 mila tonnellate e i suoi otto piani ospitano fino a 350 persone.
Paese colonizzato, il gas fa gola a tutti
Per chi vive su quella costa, però, l’estrazione del gas non significa necessariamente maggiore ricchezza. Perché i proventi del gas non arrivano direttamente ai poveri; a meno che non ci si alimenti col gas e petrolio.
«Resta davvero poco con cui sfamarsi per gli abitanti dei piccoli villaggi rurali», raccontano i nostri missionari.
Il “nuovo dramma” mozambicano (dopo 16 anni di guerra civile terminata con l’accordo di pace del 4 ottobre 1992) è un terrorismo che dal 2017 ha fiutato la ricchezza nascosta nelle acque profonde dell’Oceano. E contenuta sotto la terra rossa che appartiene alla “costa dalle uova d’oro”.
I nostri missionari ne parlano da anni con sempre maggiore apprensione: la verità è che «il Mozambico è stato colonizzato», spiega padre Massimo Robol, missionario comboniano a Nampula.
Il governo mozambicano è completamente dentro la narrazione jihadista: anche l’Italia, tramite l’Eni, aderisce alla narrazione della guerra jihadista. Ma che jihadismo è? E quanto ha a che fare con la volontà di accaparrarsi le risorse?
Di sicuro con gli attacchi armati e gli incendi dolosi nei villaggi del Nord, «l’intento dei terroristi era quello di far scappare la gente», denuncia Robol. Riuscendo nell’impresa.
Ma il motivo per cui i terroristi vogliono Cabo Delgado è la sua ricchezza. Finora non ci sono riusciti poiché le aziende europee del gas si sono mostrate più forti di loro.
Le multinazionali del gas e del petrolio (la Total è anch’essa in questa regione), durante gli anni di guerriglia si sono protette, assumendo contractors armati e restando fuori dal pericolo ma dentro la zona rossa, senza perdere il dominio sul mare.
Il popolo scappa, i ribelli avanzano
Il dramma del popolo mozambicano invece è proseguito.
Da una parte, per gli sfollati che sono fuggiti al centro del Paese e che ora vivono nei campi profughi senza una vita degna; dall’altra, per quella fetta di popolazione finora al sicuro, che adesso affronta la discesa dei “barbari” verso il Sud. Non potendo avere il Nord i terroristi tentano la carta del centro-sud.
«Notiamo con crescente preoccupazione i primi attacchi alla provincia di Nampula risalenti a venerdì 2 settembre, a Namapa e il 6 settembre anche a Chipene.
In effetti si stanno sempre più avvicinando alla città di Nampula», scrivono i vescovi della Southern African Catholic Bishops’ Conference.
I gruppi armati si sono spinti questo autunno fin dentro la provincia di Nampula, considerata finora territorio off limits per i jihadisti.
È proprio qui, a Chipene, che hanno aggredito la missione delle suore comboniane e ucciso suor Maria De Coppi, 84 anni.
Perché accade? Forse per volontà di potenza, per avanzare verso il cuore del Paese, per ottenere delle contropartite.
«Sì, siamo preoccupati per l’avanzata dei jihadisti. In effetti potrebbero colpire qui a Nampula, il capoluogo dell’omonima provincia. Spero che il sacrificio di Suor Maria contribuisca a tenere alta l’attenzione internazionale su quello che accade qui da noi», dicono i vescovi.
«Il fatto che si siano spinti così a Sud è molto preoccupante», commenta anche Alex Zappalà, direttore del Centro Missionario di Concordia Pordenone, che per primo quella terribile mattina del 6 settembre era riuscito a parlare con i due sacerdoti sfuggiti all’attacco.
«Don Lorenzo Barro e don Loris Vignandel sono vivi, ringraziamo Dio!», aveva scritto Zappalà.
«I ribelli hanno assaltato la missione – ci spiegava – ma i due fidei donum si sono salvati chiudendosi in una stanza durante l’attacco».
Non è riuscita a salvarsi invece suor Maria: questo omicidio è il suo martirio e la sua testimonianza.
Con l’auspicio che serva a fermare altri massacri e accenda i riflettori del mondo su una parte di Africa sulla quale si riversano solo gli appetiti dell’economia internazionale.
(La foto di apertura è di Alex Zappalà)