Il numero uno per distruzione e morte, tra i gruppi terroristici mondiali, è Boko Haram, che ha ucciso nel 2014 ben 6.644 persone, ossia 5mila in più rispetto all’anno precedente; seguito a brevissima distanza dall’Isis, che ne ha colpite a morte 6.073, ossia 4.672 in più del 2013. Al terzo posto di questa macabra statistica ci sono i Talebani (solo l’anno scorso hanno fatto 3.400 vittime in Afghanistan e Pakistan); i militanti Fulani (in Repubblica Centrafricana e Nigeria). E infine gli al-Shabab (mille morti lo scorso anno in Etiopia, Kenya e Somalia).
Questa orribile lista di morte è contenuta in un rapporto, il Global Terrorism Index 2015, redatto dall’Institute for Economic & Peace un think tank di Sidney. Al Qaeda non è contemplata perché in qualche modo risulta assorbita dall’Isis.
Più che mai ora, dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre dello scorso anno, il nome dell’Isis in relazione all’Europa è sulla bocca di analisti e politologi. Ma ancora una volta sono l’Africa e il Medio Oriente il target numero uno degli attentatori. Ed è un gruppo di matrice africana quello più pericoloso al mondo anche perché meno strategico e più casuale nel colpire i suoi bersagli. Opera soprattutto in Camerun, Ciad e Nigeria e si fa chiamare anche Stato Islamico della Provincia dell’Africa Occidentale. Nel 2014 ha raddoppiato i suoi attacchi e più che quadruplicato le sue vittime (vedi articolo a pag.11).
Nel complesso Iraq, Afghanistan, Nigeria, Pakistan e Siria sono i Paesi più colpiti in ordine di vittime cadute per mano dei terroristi. L’analista politico ed esperto di Medio Oriente Fabio Nicolucci ci spiega che non a caso si tratta di “Stati falliti”. Ossia di quelle organizzazioni statuali che, per una ragione o per l’altra, non hanno potuto sviluppare una vera struttura interna e dunque non hanno servizi di intelligence e sicurezza adeguati. Ed inoltre sono bacini di reclutamento della manovalanza jihadista. La Somalia e la Libia tra questi. Il rapporto dice che il terrorismo è correlato alla violenza politica, allo scarso rispetto dei diritti umani e a fattori di squilibrio socio-economico.
Per quanto riguarda i Paesi di provenienza dei terroristi, in realtà la storia dimostra, dice ancora Nicolucci, che non c’è «un rapporto meccanico tra povertà e terrorismo».
La carne da macello di questi gruppi è costituita dai più poveri, ma il terrorismo nasce e si sviluppa grazie ad una leadership acculturata e spesso anche ricca. Il coinvolgimento di Arabia Saudita e Qatar tra i sovvenzionatori del terrore la dice lunga sulla loro matrice. Al momento sembra molto ormai assodata la responsabilità degli emiri sauditi nel finanziare direttamente e indirettamente i terroristi, anche tramite donazioni private.
Per sgombrare il campo dai dubbi, rispetto al nostro sentirci nel mirino, il report dell’Institute for Economic & Peace afferma chiaramente che «la maggior parte delle morti per mano terrorista non si sono verificate in Occidente: escluso l’attacco dell’11 settembre 2001, solo lo 0,5% delle morti a partire dal Duemila è avvenuto in Occidente» e, dato ancora più interessante, il fondamentalismo islamico non è stato il principale attore del terrorismo qui da noi, negli ultimi nove anni.
«Perché l’8% delle vittime ad opera dei “lupi solitari” è frutto di un estremismo di estrema destra, nazionalista, anti-governativo e anti-democratico». La violenza che dovrebbe dunque allarmarci di più, come europei, è quella autoctona, frutto di intolleranze e razzismo. Il direttore della rivista Limes, Lucio Caracciolo, mette in guardia che da europei «dovremmo abituarci comunque a convivere con il terrorismo, non possiamo illuderci di sconfiggerlo». Ma con strategia possiamo affrontarlo.
Al contrario, in Africa il pericolo jihadista (che peraltro non c’entra nulla con l’islam politico, il quale può ben essere moderato, come la Fratellanza Musulmana insegna), non solo è attuale ma è anche in espansione.
Secondo un’analisi dei trend contenuta sempre nel rapporto in esame «c’è stato un incremento del 120% nel numero dei Paesi che hanno subito la morte di oltre 500 persone: erano 11 Paesi nel 2004 e cinque nel 2013». E questi sei Paesi in più sono Camerun, Repubblica Centrafricana, Somalia, Sud Sudan, Ucraina e Yemen.
Ciò non toglie che l’Isis possa in futuro diventare una minaccia più vicina a noi europei. Rappresenta una miscela esplosiva tra le più pericolose al mondo perché incarna «un islam medievale, che fa appello ad una maggior “purezza” dottrinale» e al contempo dispone di una organizzazione micidiale «che dispiega la forza di uno Stato con la flessibilità di un esercito di guerriglia», ci spiega Nicolucci.
L’Isis ha come «lanciato un’Opa su Al-Qaeda», rivelandosi molto più temibile. Il giornalista britannico Patrick Cockburn scrive che «sul piano militare l’Isis appare assai più efficiente dell’organizzazione qaedista da cui è nata, anche quando quest’ultima era all’apice del suo successo nel 2006-2007, prima che gli Stati Uniti convincessero molte tribù sunnite a voltarle le spalle».
In Siria l’Isis si rafforza dopo la rivolta popolare contro Bashar al-Assad, anche grazie al regime stesso, pare. In qualche modo il regime sembra averlo usato per confondere il campo dell’opposizione e imprimere una svolta terroristica a quella che all’inizio nacque come rivoluzione genuina contro una dittatura. In un articolo uscito sul Corriere della Sera a firma di Lorenzo Cremonesi, viene intervistato un ex combattente dell’Isis in Siria, oggi scappato in Europa: «A logica, il regime avrebbe dovuto segregarci ancora di più – confessa – visto che eravamo i suoi nemici storici. Invece nel dicembre di quell’anno (2012, ndr) cominciano a liberarci. Entro la fine del 2013 almeno 1.200 dei 1.400 prigionieri politici vengono rilasciati. Gli obiettivi sono due: il regime conta sulle nostre divisioni interne per rompere la compattezza delle opposizioni. Ma soprattutto mira a criminalizzare il movimento di protesta. E ci riesce».
L’Isis ha come obiettivo generale l’apostasia in tutte le sue forme, anche quella islamica che si discosta dalla purezza vagheggiata dai suoi ideologi. In Europa agiscono per lo più quelli che gli esperti chiamano “lupi solitari”. Sono azioni che l’Isis a posteriori rivendica ma il focus rimane altrove. E’ ormai universalmente assodato che la sua genesi dell’Isis da rintracciare in Iraq: «Si forma dopo l’intervento angloamericano in Iraq del 2003 – scrive Nicolucci in un suo articolo – da tre diverse componenti. La prima è il gruppo di Al-Qaeda in Iraq, fondato dal sanguinario al-Zarqaui, che riprende quella ideologia jihadista, perfino estremizzandola. La seconda è l’apporto che gli viene dalle diverse potenze regionali sunnite, con il mandato di disarticolare le potenze sciite vecchie (Siria) e nascenti (Iraq). La terza, infine, è quella baathista degli ex ufficiali di Saddam, licenziati in blocco e sbandati il 23 maggio 2003». Basandosi sull’analisi, da parte di esperti, di migliaia di video e immagini di cui è stata verificata l’autenticità, Amnesty International ha pubblicato a dicembre scorso un rapporto intitolato “Fare scorta: come abbiamo armato lo “Stato islamico” e spiega come il gruppo armato stia usando armi, in larga parte prelevate dai depositi militari iracheni, concepite e prodotte in almeno 25 paesi compresi Russia, Cina, Usa e alcuni stati dell’Unione europea.
Ma naturalmente tra i “top 5” del terrore non c’è solo l’Isis: entrando nel merito dell’organizzazione dei Talebani, il Global Terrorist Index ricorda che è stata fondata nel 1994 da Mohammed Omar.
Inizialmente era costituita da un mix di mujaddin che combatterono contro l’invasione dell’Unione Sovietica in Afghanistan negli Anni Ottanta e da un gruppo di tribù del pashtun.
Hanno assunto il controllo dell’Afghanistan nel 1996 e governato fino al 2001, quando gli americani li hanno estromessi dal potere invadendo il Paese. Ma da allora si sono riorganizzati in modo più violento e liberticida contro lo stesso popolo afghano meno docile, come movimento ribelle per combattere l’amministrazione Karzai e la Nato.
Se una cosa ci insegnano le storie e la genesi di questi gruppi di terroristi è che laddove si è tentato con la forza di decapitarne la cupola gerarchica (senza prendere in considerazione la base e le ragioni del consenso popolare, ossia quasi sempre); o laddove si è imposto un sovvertimento di regime senza considerare le conseguenze sul campo e le possibili alternative autoctone, si è sbagliato di molto. E si è dato modo al terrorismo di attecchire e riprodursi in modo più virulento e tenace.
Per affrontarlo realmente, forse, in futuro, esclusa l’opzione puramente militare, serviranno un progetto culturale e una revisione storica in grado di sovvertirne le radici da dentro. Ed ottenerne il genuino rifiuto da parte delle popolazioni locali, desiderose in fondo solo di vivere meglio, in sicurezza e in pace. Un’alleanza con i Paesi islamici moderati (non con l’Arabia Saudita) e un isolamento della violenza tramite un embargo serio agli approvvigionamenti di energia, costituiscono lo strumento più efficace per batterli davvero.
(di Ilaria De Bonis. Pubblicato sul numero di gennaio 2016 di Popoli e Missione)