«Io non posso sognare di fare il medico o il pilota; posso solo sognare di avere un permesso di soggiorno e trovare un lavoro fisso. Vorrei essere elettricista o giardiniere. Per mandare i soldi alla mia famiglia a Dacca, perché i miei hanno ipotecato la casa per farmi partire. Tu mi vedi così sorridente… Ma io dentro sono tutto scombussolato».
U. H., sguardo vivace ma incupito dai pensieri, mi racconta la sua storia seduti ad un bar di via Aurelia a Roma, dopo aver lavato per ore i vetri delle auto al semaforo.
«Quando il tempo si fa brutto lascio il secchio e vengo qui a bere un caffè», dice. E trova sempre chi glielo offre: come si dice a Napoli, qui il caffè è “sospeso” per U.
Nella zona residenziale dell’Aurelia in molti lo conoscono e lo ama no.
«Io ho due mamme italiane – mi confida tirando fuori la foto di due signore – Una è mamma Carmela e l’altra è la signora Silvana. Mamma Carmela mi ha fatto rimettere a posto i denti, ha pagato tutto lei per me! Abita proprio qui dietro. E a Natale mi vuole sempre a casa con la famiglia, con lei e i figli».
I denti, mi dirà, glieli hanno spaccati in Libia, in un campo, a forza di botte. Ma la fede in Dio, per questo ragazzo bengalese, di religione islamica, nato nel 1983 in Bangladesh, è una certezza assoluta.
«Quando Dio vuole, le cose arrivano –dice – se Dio non vuole è inutile che ti sforzi. Io prego sempre dentro di me. Quando ringrazio Dio dopo aver bevuto e mangiato sto già pregando..». U. è un esempio perfetto di resilienza e positività oltre ogni limite: è arrivato in Italia da solo, cinque anni fa; dopo essere passato per Dubai e poi per la Libia («lavoravo come muratore e poi in un negozio di piccioni», sottoposto a violenze agghiaccianti), per poi esser messo su un barcone e sbarcare in Sicilia.
«Il problema è che tutto quello che guadagno lo mando a casa, perché abbiamo ancora un debito con chi mi ha fatto partire», dice. I soldi (500mila taka, quasi 3.000 euro) glieli ha prestati un suo cugino. E se non vengono restituiti la famiglia rischia la vita.
U. naturalmente non è il solo ad avere una storia così intensa. In questa zona del XIII Municipio – tra via Aurelia e via Boccea – negli ultimi dieci anni un flusso consistente di migranti (frutto per lo più dei ricongiungimenti famigliari), ha cambiato il volto del quartiere. Lo ha reso più vivo; e anche più intraprendente.
Storicamente queste zone sono legate in modo viscerale alla Chiesa e al papato. L’impronta è impressa in ogni anfratto: nell’urbanistica, nell’architettura, nella toponomastica.
Tutt’ora la curia è presente in diverso modo tra Aurelia (la via romana percorsa dai pellegrini che arrivavano a San Pietro) e Pineta Sacchetti. Storicamente quando il potere dei papi si afferma, dal 1400 al 1600, nascono ville nobiliari, volute da vescovi e cardinali. Piazza Pio IX, tra le più popolari, affianca via Sisto IV e Gregorio XIII. Quelle nobiliari erano residenze raffinate e contenevano piccoli gioielli architettonici, da Villa Doria Pamphili, a Villa Carpegna, a Villa Sacchetti.
Oggi il mix di storia e cronaca rende tutto più interessante. Il vecchio e il nuovo cercano forme di incastro. Non sempre si riesce a trovare la giusta sintonia con la gente del quartiere: la povertà degli ultimi arrivati morde il freno e crea disagio.
Il “decoro” che i romani ricercano con ossessione viene “bruciato” dall’urgenza e dalla precarietà di vite ai margini. Il quartiere nonostante le resistenze però cambia: sorgono come funghi botteghe di alimentari e frutta gestite da bengalesi – erano solo uomini, poi sono arrivate le loro mogli- che restano aperte fino a tardi.
Qualche ristorante latinoamericano e le tavole calde col menù Africa.
I cinesi hanno il monopolio dei bazar e degli articoli per la casa. Le donne bengalesi vestite con i sari sgargianti, dal rosso all’arancione all’azzurro, fanno più bella la città. I colori accesi dei loro abiti prevalgono sul grigio dei palazzi. E le scuole elementari (la più centrale a Circonvallazione Cornelia è la “Clementina Perone”) sono frequentate da bambini nati in Italia da genitori andini, peruviani, cinesi, filippini. Le seconde generazioni hanno voglia di contare.
Più bellezza, meno decoro
Eppure, se guardiamo ai numeri della “Mappa delle diseguaglianze” di Roma (edita da Donzelli), notiamo che la percentuale di stranieri nel XIII municipio è più bassa rispetto a quella di altre periferie romane: numeri contenuti entro l’1%, in termini assoluti. In pole position ci sono i rumeni emigrati negli anni Novanta; poi arrivano i filippini (la parte più consistente di cattolici tra gli stranieri) e infine i bengalesi.
«La presenza degli asiatici qui è molto più tangibile perché le loro attività commerciali, le piccole botteghe alimentari, sono visibili a tutti. Frutto della liberalizzazione del commercio dei primi anni Duemila», ci spiega Matteo Manenti dell’associazione “Aurelio in Comune”.
Gli abitanti filippini, invece lavorano per lo più come domestici nelle case, vivono a Boccea ma si spostano di continuo nelle zone più centrali. Durante la pandemia Aurelio in Comune ha aiutato i più bisognosi con la distribuzione di pacchi viveri. E così ha fatto la Caritas locale (non solo per il lockdown), tramite le parrocchie di San Filippo Neri, San Lino e San Leone Magno. Una solidarietà per nulla scontata.
I volontari dei Centri di ascolto delle parrocchie svolgono un lavoro prezioso; fanno da collante tra i nuovi arrivati e il quartiere. «Io so’ totalmente innamorato di Roma, non posso andare da nessun’altra parte!», mi confida Uddin, sempre di Dacca, 33 anni, accento romano abbastanza marcato.
«Mio padre ha fatto per noi il ricongiungimento famigliare nel 1999, quando io avevo 11 anni. Sono andato a scuola qui, poi ho lavorato 15 anni in un supermercato e ho messo da parte i soldi per aprire un’attività mia».
È orgoglioso del suo negozio di alimentari, dove dalle 20 in poi ogni giorno regala il pane avanzato. Anche lui è musulmano e frequenta la moschea di via Battistini.
«Se fai del bene Dio ti perdona – spiega con grande naturalezza – Io quando vedo una persona che c’ha fame e si vergogna di chiedere, capisco… L’altro giorno ho aiutato un ragazzo africano. Ma non te lo dovrei dire. Non si dice quando fai del bene! Lui aveva bisogno e io gli ho dato una busta di frutta e verdura ed era contentissimo, aveva moglie e figli, ma non lavora più. Ha riempito lo zaino!».
Uddin ha trovato moglie per corrispondenza: i suoi genitori l’hanno scelta per lui dopo un viaggio a Dacca. «Ho visto la foto, era bella. Si chiama Ontorà. Ci siamo fidanzati e poi sposati. Lei è arrivata a Roma nel 2016 e adesso viviamo sulla Battistini e abbiamo due bambini».
(Reportage pubblicato su Popoli e Missione di novembre 2020).