La foto di Amal Hussain, la bambina yemenita di sette anni agonizzante in un letto d’ospedale da campo delle Nazioni Unite, è riuscita in pochi giorni a veicolare tutta l’attenzione internazionale su una guerra dimenticata.
Ci ha costretti a guardare, a prendere atto della carneficina. E forse a riflettere sui motivi di un conflitto tra i più trascurati degli ultimi dieci anni. Quella dello Yemen è volutamente una guerra dimenticata perché scomoda: ci vede materialmente coinvolti, eppure mediaticamente distanti.
Molte nazioni europee, compresa la nostra, sono responsabili del prolungato confronto bellico tra i ribelli sciiti Houthi e il governo legittimo yemenita, poiché vendono armi all’Arabia Saudita.
Nel caso italiano è ormai nota la vicenda della Rwm, la fabbrica di bombe di Domus Novas, in Sardegna, che produce ordigni i cui prototipi sono stati ritrovati proprio sul suolo yemenita.
Più in generale le potenze occidentali preferiscono non accendere troppo i riflettori su una tragedia umanitaria devastante – i morti tra i civili sono oltre cinquemila secondo fonti delle Nazioni Unite – poiché occupate a gestire altre “emergenze”.
Dalla Primavera araba alla guerra civile
«La sofferenza del popolo yemenita è un affronto al nostro senso di umanità – scrive Oxfam Italia -: il fallimento delle potenze mondiali nel riaffermare qui i valori fondanti della civiltà, una vergogna. Siamo di fronte a un triste capitolo della diplomazia contemporanea fatta di accordi sotto banco, doppiezze e ipocrisia».
Ma cosa sta accadendo, dal punto di vista bellico e diplomatico, in questo Paese esteso su una superficie di 527mila chilometri quadrati alla punta estrema della penisola arabica? E soprattutto, quando ha avuto inizio la guerra civile subito dimenticata?
Il conflitto interno nasce come tentativo di mettere fine all’ennesima storia di abusi di potere da parte di un presidente, Ali Abdullah Saleh, la cui autorità viene contestata a partire dal 2011, anno di avvio delle Primavere arabe.
Qui le sommosse popolari anticipano addirittura quella egiziana e tunisina. Ben presto anche la Primavera yemenita però viene strumentalizzata, bollando i rivoltosi come terroristi, esattamente come era avvenuto in Siria ed Egitto, e riducendo a disordini interni le richieste legittime di un intero popolo alla ricerca di pane e libertà.
All’interno dell’opposizione subentrano quasi immediatamente gruppi organizzati di ribelli sciiti, gli Houthi, conosciuti anche come Ansarullah, che dal 2004 si erano opposti al regime di Saleh e che in ogni caso godevano di un esteso consenso popolare.
Il presidente filoamericano e filosaudita invece, sempre meno amato nel suo Paese, gode di un progressivo appoggio internazionale. Il 23 novembre 2011 Saleh annuncia un passaggio di poteri al suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi, e poi a febbraio 2012 si dimette.
Alle successive elezioni si presenta un solo candidato: Hadi, appunto. Da quel momento lo Yemen precipita nella guerra civile. Arabia Saudita e Iran ne approfittano quasi subito per schierarsi: la prima con Hadi, il secondo con i ribelli Houthi.
Combattendo “per procura” i due rivali storici rischiano meno in proprio, sia in termini di uomini che di apparato bellico e morti sul campo, con l’obiettivo dichiarato di controllare lo Yemen, Paese strategico per entrambi.
E la speranza recondita di farsi fuori tra di loro. La guerra prende immediatamente dimensioni internazionali: i Paesi tradizionalmente anti iraniani si schierano a favore del governo ufficiale di Sana’a contro i ribelli: Emirati Arabi Uniti, Bahrain e una coalizione di alleati europei sostengono questa compagine.
Fame, bombe e colera
La guerra per procura però è anche più lunga: «Riyadh non vince perché non ha uomini sul terreno – ha detto in un’intervista al Manifesto l’analista saudita Ali al-Ahmed – Non ci sono miliziani in Yemen che combattono per Riyadh, eccezion fatta per le forze governative, buona parte delle quali è in cerca solo di un salario e non del raggiungimento di obiettivi politici. Lo Yemen è geograficamente un Paese difficile, montagnoso: chi ci combatte deve conoscerlo bene. E gli Houthi lo conoscono».
Ecco perché il conflitto si trascina da anni e la gente continua a morire per fame, bombe e colera. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha) ha stimato che più di due terzi della popolazione yemenita necessita di aiuti umanitari e che almeno 2,9 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro abitazioni.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che i sospetti casi di colera causati dalla mancanza di acqua potabile erano più di 500mila ad agosto 2017.
Dall’insorgenza dell’epidemia nel 2016, i decessi sono stati quasi duemila. I morti tra i civili dal 2015 ad agosto 2018 erano 5.144, di cui almeno 1.184 bambini, mentre più di 8.749 erano i feriti. Amnesty International denuncia che gli attacchi della coalizione saudita solo in parte sono diretti contro bersagli militari; la gran parte vengono lanciati in maniera indiscriminata proprio contro obiettivi civili, «come cortei funebri, scuole, mercati, zone residenziali e imbarcazioni civili».
A marzo scorso un elicottero ha attaccato un’imbarcazione con a bordo 146 migranti e rifugiati somali, al largo della costa della città portuale di Hodeidah, uccidendo 42 civili e ferendone altri 34. In un altro attacco, lanciato ad agosto su un quartiere residenziale a Sud di Sana’a, sono morti 16 civili e altri 17 sono rimasti feriti; le vittime erano in maggioranza bambini.
Rimane da chiedersi perché il mondo sostenga Ryad in questa guerra. Il giornalista canadese Gwynne Dayer in un pezzo dal titolo “La guerra nello Yemen serve a punire l’Iran” dà la risposta.
L’Iran, nemico numero uno dell’Occidente
«Chi ha una certa età ricorderà quello che è accaduto dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, con il diluvio di rapporti d’intelligence statunitensi d’alto livello sulle presunte armi di distruzione di massa irachene, usati per giustificare l’attacco – scrive – Tutti erano in pericolo, probabilmente anche Bolivia, Svizzera e Nepal, e quindi tutti dovevano sostenere l’invasione». Ma la realtà è che il presidente George W. Bush voleva solo rovesciare Saddam Hussein.
Una cosa analoga accade oggi con l’Iran:
«Il copione è il seguente – argomenta Dayer – L’Iran è una potenza aggressiva ed espansionistica che minaccia chiunque in ogni luogo del mondo. La prova sarebbe che sta aiutando i cattivi nello Yemen, gli Houthi, a scagliare missili sugli innocenti cittadini sauditi. Anzi sta proprio fornendo i missili ai malvagi Houthi».
La propaganda vuole, dunque, il mondo occidentale schierato con il governo dello Yemen e con la coalizione saudita, in funzione anti-iraniana.
L’Iran è considerato dall’Occidente il nemico per eccellenza, nonostante la sua pericolosità sia ormai smentita dal programma anti-nucleare che Teheran continua a rispettare.
Mentre il mondo è occupato a combattere fisicamente ed ideologicamente l’Iran, nello Yemen la carestia, un embargo contro l’ingresso di aiuti umanitari e la privazione dei beni di prima necessità, uccidono i bambini.
Non ci sono più né cibo né medicinali. Eccoci di nuovo di fronte all’istantanea di Amal Hussain, fotografata dal premio Pulitzer Tyler Hicks per il New York Times: la piccola è morta pochi giorni dopo quello scatto, per fame, sete e consunzione. I suoi occhi non possiamo dimenticarli, però. Il suo viso inerme che attende solo la morte è un monito e diventerà senza dubbio un simbolo di quella connivenza occidentale che sta mietendo migliaia di vittime.